sabato, Gennaio 11, 2025

Il nostro Islam: storie di ordinaria integrazione

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Dopo la strage di Parigi, siamo andati a scoprire che aria tira sull’isola. Dall’imprenditore Mido ai giovani Saied e Khassim

INCHIESTA DI PASQUALE RAICALDO | La prima cosa che Mido ha condiviso sulla bacheca Facebook, dopo gli attentati di Parigi, è stato un versetto del Corano. Per chi voglia approfondire, 60:8. E ha spiegato a chiare lettere che l’Islam è una religione di misericordia e non consente il terrorismo. E che in particolare “Dio non proibisce di essere buoni e giusti nei confronti di coloro che non vi hanno combattuto per la vostra religione e che non vi hanno scacciato dalle vostre case”. Poi, è tornato alla sua quotidianità di ristoratore, nel cuore di Ischia: pizzeria “Luna Rossa”, che gestisce (con ottimi risultati) da qualche tempo, con la moglie Lucy, per metà ischitana e metà egiziana.
Perché in fondo c’è un Islam vicino, talmente vicino che è tra noi. Benché sembrino dimenticarsene titolisti assatanati e opinionisti da social, tutti coloro che hanno fatto di tutta l’erba un fascio sull’onda emotiva dell’immane tragedia.
Come se non ci fossero le storie di Mido e Saied, Khassim e Amedeo a farsi largo tra le pieghe di una piccola isola che, in ossequio alla sua vocazione inclusiva (furono immigrati, o meglio coloni, dell’antica Eubea a scrivere le prime pagine della storia isolana). Storie di successo imprenditoriale e di sacrifici. Di integrazione e – soprattutto – di riconoscimento di simboli e identità reciproci.
La grande frattura tra Occidente e Islam è del resto una storia secolare che vive di frizioni, ma anche di meravigliose contaminazioni.
E la nostra passeggiata per Ischia, a pochi giorni dal Bataclan, con le lacrime che ancora rigano il volto degli occidentali impauriti e scossi dall’orrore planetario, nasce proprio dal desiderio di raccontarvi quello che avete davanti agli occhi, tutti i giorni. Il diverso che è, in realtà, parte di noi e del nostro tessuto. Perché tra i 4218 immigrati regolari residenti, secondo uno studio dell’Acli, sulla nostra isola la comunità di fede musulmana è più consistente di quanto si possa immaginare.
Mido vi fa parte con Lucy dal 2004. Scelta d’amore, la sua. Ingegnere informatico di Alessandria d’Egitto, assunto da una multinazionale petrolifera, incontra la donna che gli cambia la vita. E decide di seguirla a Ischia. Dove, neanche a dirlo, ricomincia da lavapiatti ai Maronti. «In pochi mesi ero già a cucinare. Dal 2012, gestisco un ristorante mio, dove cucino anche. Abbiamo undici dipendenti, mia moglie si occupa del management».
Musulmani, entrambi: praticano il digiuno del Ramadan. E alla fede islamica hanno evidentemente iniziato anche i loro splendidi bambini, Gamal e Jasmine, 9 e 11 anni. «A scuola hanno storto il naso quando abbiamo chiesto che non seguissero l’ora di religione: “Siete in Italia, dovete adattarvi”. Io non mi sono scomposto e ho spiegato che possiamo essere italiani, ma di fede islamica. I nostri figli sono integratissimi, oggi. E partecipano alle recite di Natale e al Precetto di Pasqua, perché in fondo è un modo per socializzare e non sentirsi esclusi. Quando saranno maturi, potranno scegliere se vogliono ancora essere musulmani. Si chiama libertà». Appunto.
Certo, da venerdì 13 le invettive – soprattutto online – fanno arrabbiare, e molto. «Il punto è che i media e la superficialità hanno diffuso un’immagine dell’Islam distorta. Il vero musulmano non può volere ammazzare, è contro quel che dice il Corano. Altra cosa è la guerra, altra cosa la disperazione. Ma vedere così tanta gente che generalizza non fa piacere».
Quanto all’integrazione interreligiosa, il problema non troppo forte sull’isola: «Non ho trovato particolari difficoltà legate alla mia fede», spiega Mido. «I miei figli sono cittadini italiani, sono nati qui. A loro ho spiegato in modo semplice che, come c’è chi nasce maschio e chi femmina, c’è chi nasce in una famiglia musulmana e chi in una cattolica. Potranno scegliere la loro strada, io non obbligherò nessuno: se mia figlia resterà musulmana, guarderà e sposerà un musulmano. Ma sarà una scelta esclusivamente sua».
Quella di Mido è certo una storia esemplare. Di integrazione e di successo. Fortunata.
C’è chi ha appena iniziato, invece, un percorso complicato. Lontano da casa. Distante dal proprio paese. Khassim, per esempio, arrivò a Ischia due anni fa dal Senegal. Ha ventuno anni, ha trovato un impiego in un albergo. Uno zio a Milano, un cugino sull’isola: la strada verso l’Italia è stata quasi obbligata, ha due sorelle in Senegal e con i genitori si sente spesso su Viber, un’applicazione per cellulari. Il futuro? Ha le idee chiare: nel giro di cinque anni vuole mettere da parte i soldi per aprire un negozio di abbigliamento in Senegal. E’ a Ischia di passaggio, poi chissà. «Integrazione? Abbiamo culture diverse, ho pochi amici ischitani – racconta – e forse sì, la religione è un ostacolo». Un ostacolo. Perché la diffidenza alle volte, e tanto più quando i media incanalano l’odio verso il diverso (il titolo di “Libero” vi dice qualcosa?), è subdola. E si insinua nei nostri Comuni.
Anche se in pochi, nel nostro viaggio, parlano apertamente di razzismo a sfondo religioso. Per fortuna, del resto, le invettive che sui social si manifestano apertamente – con utenti invasati che darebbero fuoco a tutti i musulmani perché «non esiste un Islam moderato» – si traducono, al supermercato e al ristorante, in sguardi di simpatia, spesso. Al più, in indifferenza. Saied è tunisino, vive a Ischia da sette anni: «L’integrazione sull’isola? Ho degli amici, e a quelli ai quali non vado a genio credo semplicemente di non stare simpatico». Meglio così.
Rami, invece, ha appena 15 anni. E’ un immigrato di seconda generazione, nato a Ischia, con un sogno («Fare il meccanico») e con molti amici («ischitani, tunisini, brasiliani»). Sua madre è in Tunisia, con una sorella e un fratello: «In Tunisia si vive bene, ma io anche a Ischia vivo benissimo». Sono in netta crescita, gli immigrati di seconda generazione: popolano le nostre scuole e sono portavoce di percorsi di integrazione andati a buon fine. E’ tutto più semplice quando nasci e cresci in un paese, benché diverso da quello dei tuoi genitori.
Mamadou, per esempio, è a Ischia da appena 7 mesi: arriva dal Senegal, ha la pelle nerissima. «Del mio paese mi manca soprattutto mia madre», racconta. «Sì, avere amici ischitani è difficili. A Forio facciamo gruppo soprattutto tra senegalesi». E il rischio è proprio questo, in molti casi: che le comunità si chiudano a riccio, ricostruendo qui dinamiche e rapporti che, anziché favorirne l’integrazione, finiscono con l’amplificare la linea di demarcazione con gli ischitani. Accade con i dominicani, per esempio, una comunità in netta crescita nell’ultimo decennio.
«Anche i musulmani – spiega Imen – tendono a chiudersi, spesso. E in molti casi l’immigrazione riguarda fasce di popolazione poco abbienti, che non hanno studiato».
«Non i disperati, però. Quelli non arrivano sull’isola» aggiusta il tiro Amedeo M’rad, 49 anni, che si occupa proprio di pratiche per immigrati e che è un punto di riferimento forte per la comunità tunisina. «Chi arriva a Lampedusa, di solito è intenzionato a raggiungere il Nord Europa. Qui arriva chi ha appoggi, parenti, progetti di vita».
Con lui Hichem, 39 anni, che lavora nella ristorazione, e Omar, 43, in Italia dal lontano 1993. Hanno tratti chiaramente tunisini, ma ormai sono a Ischia da tanti anni. Eppure, raccontano, «la gente continua a guardarci storto, anche a lavoro. Lo hanno fatto per anni, figuriamoci ora che la crisi ha alimentato le paure degli isolani e che c’è tutta questa confusione sull’Isis».
Oggi, come accennavamo, il rischio è che la minaccia dell’Isis e questa profonda frattura tra Occidente e Islam, certo amplificata dall’orrore di Parigi, alimentino il divario tra gli ischitani e gli stranieri, in particolar modo quelli di fede musulmana.
«Io credo che l’errore di fondo della contemporaneità sia quello di mischiare religione e politica – spiega invece la tunisina Imen, che però è atea e che frequenta il Centro territoriale permanente della scuola “Scotti” di via Michele Mazzella – e i problemi del mondo arabo derivano proprio dalla commistione tra Islam e potere, spesso – anche in passato – occultamente finanziata da paesi occidentali».
Imen voleva andare in Francia, la vita ha disegnato un percorso imprevedibile: «Sono atea, e non è semplice essere atei in Tunisia. I miei genitori hanno studiato a contatto con professori comunisti, io sono cresciuta con idee poco compatibili con la società tunisina. E con le amiche non è stato semplice: quando tutti digiunavano e io raccontavo di andare a casa a pranzare, tutti sorridevano scherzosamente. Quasi a dire: impossibile». Imen avrebbe voluto fare la professoressa in Francia, si è trovata a lavare i piatti a Ischia. «Non ero abituata, non avevo mai fatto lavori manuali in Tunisia – ci racconta – ma per mantenermi non sono andata troppo per il sottile. E ho vissuto anche da clandestina, all’inizio.
Quando mi dicono “Torna al tuo paese, l’Italia dà a stento lavoro a noi italiani”, io rispondo che è solo l’apertura, mentale ed economica, a favorire un equilibrio. E no, non voglio tornare in Tunisia, dove la condizione della donna – pur migliore rispetto agli altri paesi islamici – dovrà ancora migliorare. Non siamo del tutto libere di vestirci come si deve e col buio è meglio restare a casa».
Quella di Imen (il suo nome significa fede, ma guai a dirle che sia un paradosso, perché replica: «Mica solo in Dio si può credere?») è una storia piena di bivi. Uno su tutti: partì per la Francia cinque giorni prima dell’esplosione della Primavera araba. «Qualche giorno dopo, chissà, sarei rimasta ancora in Tunisia». Ora vive a Forio, e gli occhi le brillano quando le chiediamo cosa sogni, a trent’anni, mentre sbarca il lunario come può, arrabattandosi tra lavori domestici e l’ultimo impiego, da aiuto parrucchiere: «So che fare la professoressa è complicato. E io sono realista. Mi farebbe piacere fare la guida turistica, ecco. Conosco il francese, so che non ci sono molti turisti francesi da queste parti». E allora mica s’è data per vinta? Ha imparato il tedesco, studia il russo e imparerà lo spagnolo: «Sono portata per le lingue».
Guardateli negli occhi, uno ad uno, Mido e Khassin, Amedeo e Imen. E poi – se pure ancora aveste la tentazione di battere sulla tastiera nevrotica del vostro computer un “Ammazzateli tutti, gli islamici bastardi” – provate ad argomentarlo. Senza arrampicarvi sugli specchi di una visione superficiale della complessa modernità. Dove i terroristi uccidono in nome di Dio o Allah. Ma ciò non vuol dire che chi crede in Allah – o in Dio – lo sia a prescindere. E’ semplice, no?

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1 COMMENT

  1. una lezione di civiltà ci viene dalle varie dichiarazioni che hai raccolto:grazie a te ed a tutti i tuoi intervistati.

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