Gea Finelli | Sul finire degli anni ‘90, nei giorni ribelli e spensierati della mia adolescenza, quando la brezza primaverile lasciava posto alla prima calura che segnava l’inizio della bella stagione, lo spirito di noi ragazzini si accendeva dei primi lampi di trasgressione e di voglia di avventura.
L’incantevole cornice dell’Isola di Procida, dove eravamo soliti trascorrere i mesi estivi-da giugno a settembre- offriva un gran da fare a chi aveva voglia di esplorare sentieri e percorsi poco battuti, tra agavi, fichi d’india e scogli che, come grandi terrazzamenti, degradavano fino al mare.
Allora noi, fatto il carico di temerarietà e spirito d’avventura, sceglievamo con accuratezza le stradine da percorrere per scoprire nuovi mondi e orizzonti inesplorati. Spesso raggiungevamo il Belvedere della Chiaia, dove lo sguardo resta ipnotizzato dalla visione di una baia unica, sulla quale si affaccia, come un presepe costruito sull’acqua, il porticciolo colorato e allegro della Corricella e l’imponente carcere della rocca di Terra Murata. Allora ci guardavamo tra noi, ci consultavamo un attimo e decidevamo di ridiscendere la stradina che come un serpente si snoda a ridosso del mare fin sulla Punta di Pizzaco. Via Raja si chiamava: paradiso per pochi eletti, intenditori e conoscitori dell’Isola.
Giunti quasi alla fine, un altro bivio si imponeva alle nostre giovani menti. Una stradina si dirigeva a sinistra verso un rudere abbandonato, stagliato come un baluardo a difesa di quel tratto di costa; un’altra andava verso destra, inerpicandosi tra le campagne e le sparute villette, tra agrumeti, limoneti e quadrifogli che ne segnavano il percorso. Allora si restava così: fermi, combattuti. La giovanile e sana voglia di trasgressione si scontrava silenziosamente con la puerile paura dell’ignoto.
I racconti sulla leggenda che avvolgeva quel casolare abbandonato sconfortavano anche i più temerari che optavano quasi sempre per la stradina di campagna, i cui pericoli erano più noti e di certo affrontabili. A noi piccolini, si raccontava che quel casolare fosse l’antica casa di una giovane fanciulla chiamata Graziella, morta tanti anni prima. Una ragazza dai capelli neri e gli occhi celesti come l’azzurro del mare, che era il prototipo delle belle e moderne donne procidane.
Spesso le luci del tramonto avvolgevano la casa, fatta di archi e passaggi suggestivi, di un’atmosfera surreale, incantata, rimasta ferma in un’epoca sconosciuta e lontana.
Lamenti di gufi e voli di gabbiani la avvolgevano in uno spettro di primitività e sembrava quasi che, anche dalle sue stanze, provenissero suoni di anime passate.
Quanto è vero che, a volte, la suggestione e la leggenda regalano ad un luogo il fascino immeritato dell’ignoto.
E quel meraviglioso stato di confusione tra stupore e paura, tipico della giovinezza, fa diventare una stella anche la più sporca delle stalle.
Era così che accadeva alla casa di Graziella, per noi luogo magico nonostante il suo aspetto decadente.
Neanche la leggenda e il mistero che avvolgevano quel nome e quella dimora erano sufficienti ad alimentare in noi la curiosità per la storia narrata nel celebre romanzo del poeta francese dell’800.
Ci bastava la suggestione alimentata da quella visione che profumava di trasgressione e voglia di diventare grandi; ci bastava la festa di paese che ogni anno rievocava quel nome, dove ci rallegravamo con le nostre famiglie confondendoci tra la folla e inebriandoci dell’euforia isolana; ci bastava quel nome: “Graziella” e la voglia di sognare e diventare anche noi belle, con i capelli lunghi neri e gli occhi lucidi e splendenti, figlie di quella Procida che resta sempre uguale, cristallizzata nei suoi miti e nelle sue tradizioni, ferma nel tempo che fu e nel tempo che è, che era il nostro presente di ragazzini immortalati nella fotografia del passaggio dall’età bambina all’età adulta.
Oggi, a 33 anni, ho riletto con attenzione e fame di sapere il libro di Lamartine, e solo ora ho davvero potuto assaporare la realtà, sebbene condita dal filone letterario, che si nasconde dietro quella leggenda della mia infanzia.
“Graziella” è un mirabile affresco della Procida di inizi ‘800.
Lamartine rientra a pieno titolo in quella categoria di “scrittori impressionisti” capaci di regalare pennellate vivide e cariche di realtà al pari di un pittore sulla sua tela.
Mentre leggi sei lì: in quell’atmosfera magica che appartiene ad un passato che non c’è più, naufrago sul mare nel golfo di Napoli nella notte tempestosa, seduto nella stanza della povera casa del pescatore di Mergellina intento a guardare Graziella che lavora il corallo, disteso su una terrazza procidana nelle prime ore del pomeriggio a consumare pasti poveri e frugali come fichi e formaggio, a vedere giovani fanciulle stordirsi fino alla vertigine nella frenesia delle danze popolari come la tarantella, a stupirti di un sentimento di cui non riconosci l’essenza, tra istinti di desiderio e moti compassionevoli dell’anima.
Nell’animo del giovane poeta ventunenne si ritrovano tutti gli stordimenti, le pulsioni e le inquietudini della pubertà. Perché: “…anche lo spirito attraversa la pubertà come il corpo”, morso dagli stessi insidiosi inganni, che sono propri di un’immagine che cambia rapidamente dinanzi a sé stessa.
Echi di una giovinezza lontana, amori infelici e turbolenti, evocazioni malinconiche della solitudine e la natura consolatrice che permea, plasma e infiamma di bagliore e candore lo spirito.
C’è tutto questo nel romanzo di Lamartine, che vale la pena leggere per cogliere l’origine della leggenda nascosta dietro il nome Graziella.
Sarà che i ricordi dell’infanzia sono quelli che più restano attaccati al nostro animo,sarà che esiste per tutti una patria del cuore che per me è la stessa prescelta dal poeta.
Sarà che, come scrive Lamartine: “L’uomo ha un bel guardare e abbracciare lo spazio; per lui la natura intera si compone soltanto di due o tre punti sensibili ai quali fa capo tutta la sua anima… Cancellate il luogo e la casa che i vostri pensieri cercano o che i vostri ricordi popolano, non resterà più che un vuoto scintillante in cui lo sguardo si immerge senza trovare né fondo né riposo…”
Sarà che per me, come per lo scrittore francese, quella casa è la casa di Graziella e quel luogo è Procida…
Ne si deduce facilmente che, senza quelle visioni, il mio sguardo non trova riposo e la mia anima non trova pace.