Francesco Ferrandino | Un libro per ricordare la straordinaria figura di Maria Lorenza Longo, dal 2021 finalmente Beata. Lunedì 15 maggio a Villa Arbusto si è parlato di questa personalità così centrale nella Napoli del ‘500, e delle sue opere i cui effetti sono presenti fino ai giorni nostri. Durante l’incontro, moderato dall’archeologa Mariangela Catuogno, responsabile Commissione Archeologia C.T. AiParc Isola d’Ischia, l’ospite d’eccezione è stata Suor Rosa Lupoli, Abbadessa delle Monache Cappuccine di Napoli. Originaria dell’isola d’Ischia, ha scritto il volume “Dal grido degli ultimi al silenzio di Dio” (edizioni Colonnese) in cui ha ricostruito la vicenda umana della Beata, che ha lasciato un segno indelebile a Napoli grazie all’Ospedale degli Incurabili e il Monastero delle Cappuccine. Abbiamo avuto la possibilità e il piacere di intervistarla.
Maria Lorenza Longo è una figura importante, una protagonista della storia napoletana. Come mai il processo di canonizzazione non è iniziato prima?
«Questa lunga attesa è dovuta al fatto che avendo il monastero adottato la regola di Santa Chiara, esso non prevede rendite, vive cioè della generosità delle persone, quindi era impensabile poter istruire un processo di beatificazione da parte delle monache. In quel momento i frati, i cappuccini e i teatini non erano interessati, così come la Curia. A lungo nessuno si era mosso. Solo alla fine dell’Ottocento c’è stata una prima svolta: i medici dell’ospedale hanno costituito un’associazione e hanno iniziato la causa».
Durante la presentazione del suo libro sulla beata, ci ha raccontato che è dal 1992 che è iniziato il suo interesse verso la ricostruzione della vita di questa figura. Cosa l’ha spinta a impegnarsi in questa avventura? Forse il fatto che non c’era stata in precedenza una ricostruzione biografica approfondita della sua vicenda?
«L’interesse è nato anche dal mio modo di essere: mi trovavo in un monastero del ‘500, in cui tutto racconta di una storia, di una vita, di una comunità che è nata con lei. Era quindi inevitabile che, mentre vivevo in quella casa e avevo anche a disposizione un archivio che per fortuna non ha subìto perdite, mi nascesse questo desiderio. Poi mi sono state fatte delle richieste di studio proprio su Maria Lorenza Longo. Le sorelle che mi hanno preceduto, alcune delle quali sono ora in cielo, hanno tutte fatto qualcosa affinché la fondatrice potesse essere beatificata, ma purtroppo non avevano avuto la possibilità di accedere agli archivi, di poter fare una ricerca approfondita. Allora quando poi hanno visto che io ero in grado di eseguire una ricerca adeguata, mi hanno in qualche modo sospinta, anche perché mi dicevano che le abadesse precedenti avevano tutte agito in questa direzione, e quindi anche noi volevamo fare qualcosa. Ho così capito che quello che mancava era uno studio specifico su di lei, anche se c’erano delle biografie, che però non erano mai state divulgate. Quindi quando noi siamo entrate nel monastero dopo 30 anni, l’evento ha richiamato un po’ di attenzione: è stata quella l’occasione per parlare, naturalmente, anche delle Clarisse. Tutti mi chiedevano perché avevo scelto le Cappuccine e non ero andata a Santa Chiara, che è più famosa, oppure alle Urbaniste a Riviera di Chiaia. In realtà io non conoscevo nessuno di questi monasteri, è il Signore che ti porta in certe strade, e quando sono arrivata in questo luogo ho cercato di capire cosa mi poteva trasmettere. Di conseguenza, quando le tante persone che venivano al monastero per incontrare e conoscere le ragazze appena entrate, per me era l’occasione di parlare di lei. Naturalmente io volevo approfondire, e ho continuato nel tempo le ricerche».
Lei quindi ha finalizzato un lavoro che in parte è stato iniziato da chi l’ha preceduta.
«Mi ha sempre commosso pensare che le sorelle che hanno vissuto prima di me, nella povertà, attraversando due guerre mondiali con gravi conseguenze al monastero, abbiano sempre messo da parte qualche soldino per questo processo di beatificazione, quando non c’era nessuna possibilità concreta che andasse avanti. Eppure la speranza rimaneva viva. Questo fondo, che mi fu consegnato quando sono diventata abadessa si è esaurito proprio quando si è felicemente concluso il processo con l’approvazione del miracolo, l’anno prima della beatificazione: questo per me è stato un grande segno, perché significava che questa cosa andava fatta, e andava anche a coronare i sacrifici delle sorelle che mi avevano preceduto».
Lei è di origine ischitana. Come e quando nacque la sua vocazione?
«Accadde poco prima che entrassi in monastero. Avevo iniziato a frequentare la parrocchia, cosa che prima non facevo quasi mai. Giocavo a pallavolo, e non dedicavo molto tempo a frequentare la chiesa. Quell’anno, però, mi misi d’impegno perché dissi a me stessa: “Questa religione la voglio conoscere”. Non mi accontentavo di ridurla a qualcosa di tramandato dai padri, ma volevo conoscerne i precisi confini e mi iscrissi anche alla facoltà di teologia di Posillipo. In quel periodo, febbraio del 1990, una ragazza di Ischia della parrocchia di San Pietro entrò in monastero, e la cosa mi incuriosì molto, volevo capire cosa facevano le monache di clausura, che non credevo esistessero ancora: così ho conosciuto il monastero. Poi la curiosità mi ha spinto a tornarci da sola per conoscere ancora meglio quella realtà, sempre per quella curiosità intellettuale che è parte di me, per conoscere cose nuove, ma non pensavo assolutamente che quella sarebbe diventata la mia strada. Ero ancora in preda all’inquietudine che mi portavo dentro, senza però riuscire a definirla nei suoi contorni. Solo quando tornai in quel luogo, misi bene a fuoco che quella poteva essere un’evoluzione adeguata in quel momento della mia vita. È stata una grazia, aver intercettato tale scelta al momento giusto nel posto giusto, e dopo 33 anni sono ancora molto felice di come sia andata».
Una sua passione è quella per il Napoli Calcio, finalmente campione d’Italia, proprio 33 anni dopo. Come ha festeggiato?
«Guardi, nel ‘90 sono entrata in monastero proprio quando Napoli era in piena festa, ma all’epoca io ero prevedibilmente presa da altri pensieri. Anche stavolta la città è esplosa di felicità, è stata un’impresa sportiva, ma a Napoli la vittoria calcistica è qualcosa che va oltre l’ambito sportivo, coinvolge le persone di tutte le classi sociali, dai “nobili” alla gente dei “bassi” (che sono anche intorno al monastero), quindi c’è una enorme stratificazione sociale, e quando un evento coinvolge tutti quanti, allora vuol dire che va ben oltre il calcio. Ho visto professori universitari impazziti dalla gioia: eccezionale il caso di quel famoso luminare esperto di robotica, Bruno Siciliano, della facoltà d’Ingegneria, fra i tre maggiori esperti in tutto il mondo. Ebbene, si è mescolato alla folla festante coi capelli tinti di azzurro: uno spettacolo. Anche tanti sacerdoti si fanno prendere dal “tifo”. Quando gioca il Napoli, in città c’è un’atmosfera particolare, sospesa: cala il silenzio totale, non si sente nemmeno lo scarico di un veicolo. Poi quando finisce il primo tempo, riecco alcune voci in strada, qualche vettura che passa, e poi finalmente a fine partita, se il Napoli ha vinto, ecco che si odono i fuochi d’artificio. Fino al 1990 ricordo che in casa mia il calcio era l’argomento fisso delle domeniche caratterizzate dal campionato con tutte le partite in contemporanea nel pomeriggio, le discussioni tra mio padre e mio fratello. Io all’epoca preferivo la pallavolo. Poi, in monastero, è stato solo dal 2004 circa, grazie alla connessione internet che ho fatto installare, che abbiamo potuto iniziare a seguire meglio le notizie. In questo modo, per lo scudetto del Napoli ha festeggiato tutta la sororità: alcune sorelle non avevano interesse per lo sport, mentre altre si sono avvicinate grazie al mio tifo, al mio entusiasmo, fino a fare propria questa passione, e poi il 4 maggio ci siamo ritrovate tutte sul terrazzo ad esultare e festeggiare lo scudetto. L’attesa collettiva delle sorelle era cresciuta dopo lo “sgambetto” della Salernitana, poi finalmente anche la matematica ha sancito la vittoria. Come monastero abbiamo rapporti anche con gente di altre città d’Italia, e devo dire che purtroppo in molte di esse c’è ancora un forte pregiudizio negativo verso Napoli e i napoletani: da alcuni siamo ancora bollati come “terroni”. E sui social abbiamo ricevuto pesanti critiche, in particolare io sono stata mediaticamente massacrata per una foto dove avevo una bottiglia tra le mani, cosa normale quando si festeggia».
Qual è il suo rapporto coi social network?
«Nel mondo monastico c’è ancora molta cautela. Da una parte c’è il desiderio di conoscere, dall’altra l’incapacità di rapportarsi a tale mondo. E sui social perdonano tante cose, ma non il fatto che una monaca possa impugnare una bandiera e festeggiare. Per anni lo hanno potuto fare sacerdoti e suore, ma nel caso di una monaca di clausura viene ancora visto come qualcosa di fuori posto. Proprio la settimana scorsa ad Assisi alcune sorelle hanno partecipato a un corso sul rapporto tra monasteri, monache e i social network. Molti monasteri sono presenti sui social, ma curando solo la comunicazione più essenziale. Questo cammino noi lo abbiamo iniziato circa dieci anni fa, quando entrò in monastero una nostra sorella più giovane, suor Paola, non proprio una nativa digitale ma quasi. Io ho sostenuto che dobbiamo cogliere i segni dei tempi: era una sfida, ma mi son detta di provare a vedere come sarebbe andata. Abbiamo dovuto imparare a usarli e a gestirli, con qualche errore, ne abbiamo compreso il potere mediatico, sia in positivo che in negativo, ma non ci siamo tirate indietro. Io gestisco i profili facebook e twitter, un’altra sorella quello instagram. Lo facciamo soprattutto per comunicare eventi nel nostro monastero, oltre a condividere un po’ della nostra vita: una cosa difficile, visto che le monache hanno difficoltà a mostrare come si vive all’interno, una vita non troppo seriosa e gravosa, ma fatta anche di momenti di divertimento, come può esserlo appunto lo scudetto del Napoli. Poi però bisogna essere consapevoli che ci si troverà ad affrontare persone pronte a criticare, e a cui bisogna dare delle spiegazioni».
Lei, pur in clausura, vive nel cuore della città: avvertite la problematica dell’immigrazione? Secondo Lei si tratta di una vera emergenza o si tratta anche di una strumentalizzazione politica delle forze di governo?
«Napoli è una metropoli, una città portuale, ed è piena di immigrati di ogni provenienza: cinesi, srilankesi, polacchi, filippini, ucraini, africani. Ma per Napoli questo non è un problema, si convive tra diverse culture da tantissimo tempo. Quando abbiamo cercato un aiuto per accudire le nostre sorelle inferme, non abbiamo trovato persone italiane disposte a farlo, mentre abbiamo trovato molta disponibilità da varie donne immigrate di diversa provenienza. E oggi tale situazione viene data per scontata, nessuno a Napoli si preoccupa che chi è disposto a fare un certo lavoro non sia di origine italiana. Napoli è una città inclusiva, cosmopolita. Ho visto molti tifosi del Napoli di origini ben lontane dal nostro capoluogo, eppure parlano napoletano perfettamente. Quindi, per tornare alla sua domanda sull’immigrazione, il problema è di altro genere, più politico. D’altronde, come ho accennato prima, siamo noi stessi napoletani spesso ad essere discriminati come “terroni” in altre città italiane».
Quale messaggio vuole lasciare alla nostra comunità, recentemente colpita dalla tragica frana di Casamicciola che ha sconvolto e messo a dura prova l’intera isola?
«Ricordo che la tesi di laurea la incentrai sui terremoti che colpirono l’isola nel 1881 e nel 1883: all’epoca l’isola era già molto conosciuta nel mondo, e ricevette diversi aiuti da numerosi Paesi dove vennero fatte raccolte di denaro. Nelle fonti dell’epoca veniva comunque sottolineato che gli isolani erano un popolo forte, che sapeva rialzarsi, e lessi anche la positio nel processo di beatificazione del parroco Morgera, il quale racconta il tremendo impatto del terremoto sulla comunità e il territorio, ma anche la capacità di risollevarsi, di trovare le motivazioni per andare avanti. Quindi sono convinta che gli isolani, a prescindere dagli aiuti, sapranno anche stavolta far fronte con le proprie forze a questo momento di difficoltà. Tra l’altro, ho avuto la possibilità di visitare il Museo di Villa Arbusto: c’è così tanta Storia, che numerose mostre in terraferma spariscono al confronto. Eppure, mi è stato detto che quasi nessuno va ad ammirare il museo, scuole a parte. Non c’è un indotto, non c’è una canalizzazione del flusso dei visitatori verso quel luogo così prezioso. Ecco, l’isola deve imparare a valorizzare le sue tante risorse. Ho visitato anche il Castello Aragonese alcuni anni fa in occasione della mostra sugli abiti delle monache: essendo una proprietà privata, viene gestita al meglio, potenziando la qualità dell’offerta. Forse bisognerebbe creare più circolarità con la terraferma, creando relazioni, dunque “facendo rete” con associazioni ed enti istituzionali. Ho saputo che l’europarlamentare Giosi Ferrandino ha vinto le elezioni a Casamicciola: la sua esperienza istituzionale fuori dall’isola potrebbe servire proprio a questo, a creare delle reti di relazioni più estese a vantaggio dell’isola».