Come nasce la vocazione nel mondo di oggi? Per rispondere a questa domanda, abbiamo incontrato il neo sacerdote Paolo Buono.
– In un momento in cui gli argomenti della fede sembrano secondari, dove la Chiesa Cattolica si interroga sulla mancanza delle vocazioni e dove qualche notizia di cronaca non depone bene a quella che è la testimonianza di coloro che praticano la fede, Paolo Buono diventa sacerdote e arricchisce della sua esperienza quello che è il clero ischitano, un clero particolare, forse troppo avanti con gli anni, che sente i suoi acciacchi e che ha bisogno di nuovi operai nella vigna del Signore. Proviamo a conoscerla, a raccontare come è nata la vocazione.
«La vocazione non è un percorso uguale per tutti, anzi credo sia il percorso più singolare che si possa vivere. Infatti molti hanno un momento di conversione da uno stile di vita all’altro, dovuto o ad una parola in particolare o a conoscere una persona specifica. Nel mio caso non c’è stato un momento che ha scatenato questo desiderio, questa sensazione in me, ma è stato un cammino: dico sempre che sono stato battezzato venti giorni dopo la mia nascita e da allora non ho mai abbandonato quella che è la Chiesa, la vita parrocchiale e cristiana, partecipando alla messa quotidianamente, ogni domenica, vivendo anche il Ministero del ministrante già dai sei anni. Ho sempre vissuto nelle dinamiche della Chiesa e piano piano questa cosa è andata crescendo fino alla fine del liceo.
Nel momento in cui bisognava fare la scelta universitaria, io decisi di iscrivermi a ingegneria navale, un mio compagno di classe mi chiese “se non entri ad ingegneria navale, cosa farai?” e senza neanche pensarci risposi “entro in seminario”. Quella frase detta così, tra il serio e il faceto, tanto per chiudere una conversazione, è rimasta dentro di me. Già in prima media avevo detto “voglio diventare sacerdote” ma, capiamoci, un ragazzino di 11 anni non può avere le idee chiare, probabilmente dissi quella frase proprio perché era la cosa più congeniale al fatto di essere cresciuto in Parrocchia, anche se poteva risultare particolare per un ragazzo di 11 anni dire “voglio diventare sacerdote”. A 19 anni, invece, quella stessa frase “Voglio diventare sacerdote ed entro in seminario” aveva acquisito un significato diverso. Entrai ad ingegneria, feci i test d’ingresso e frequentai la facoltà a Monte Sant’Angelo per i primi tre mesi fino alle vacanze di Natale. Quella frase, nelle aule universitarie, continuava ad essere presente e decisi di portare avanti lo studio almeno fino alle vacanze di Natale, proprio perché non volevo che questa fosse una sensazione del momento o un qualcosa detta così, come ad 11 anni, en passant.
IL DISCERNIMENTO SPIRITUALE
«Continuai a frequentare ogni giorno per i primi tre mesi la facoltà, arrivato alle vacanze di Natale quella frase era ancora più presente e forte e decisi di comunicare la mia scelta di lasciare l’università alla mia famiglia, perché sentivo dentro di me una tensione positiva verso quello che era il sacerdozio. Ne parlai con il Parroco e ne fu felice e comunicai al Vescovo Lagnese la mia volontà di entrare in seminario a luglio dello stesso anno. Il Vescovo accolse di buon grado la cosa e decise di farmi iniziare il percorso di seminario in quello che era il nuovo anno propedeutico interdiocesano nel seminario di Pozzuoli. Cominciai l’anno entusiasta perché sentivo che quello era il luogo che mi rendeva felice, anche se nel mese di marzo, quindi verso la fine dell’anno, c’era qualcosa dentro di me che non è che non corrispondesse alla chiamata, ma sentivo che doveva ancora maturare.
Insieme con il rettore e il Vescovo misi un punto e virgola al percorso formativo istituzionale del seminario non perché ci fosse un momento di crisi, ma perché sentivo forte dentro di me la necessità di radicarmi ancora di più nelle basi della fede, nelle fondamenta del voler seguire il Signore. Iniziai il periodo di discernimento spirituale, sempre in vista del cammino di seminario, con un padre spirituale che avevo conosciuto ai tempi dell’università e che rincontrai nell’estate del 2014 in pellegrinaggio a Gerusalemme. Questo periodo è durato circa due anni e mezzo ed è stato un bel percorso di discernimento che ha scavato in profondità, sia dal punto di vista spirituale che umano e che nel 2016 mi consentiva di richiedere, con l’aiuto del padre spirituale che mi aveva dato il beneplacito per andare dal vescovo e comunicargli la mia intenzione di continuare, sotto la sua protezione, il percorso di seminario. Mi mise in contatto con l’allora rettore del seminario padre Franco Beneduce, attuale vescovo ausiliare della Diocesi di Napoli che, invece di farmi iniziare il percorso istituzionale di seminario che era già iniziato, mi propose di vivere un’esperienza sia vocazionale sia di crescita umana nel centro Regina Pacis a Quarto sotto la guida di Don Gennaro Pagano. Sono arrivato al centro a Quarto piangendo, perché ero stato catapultato in questa nuova esperienza senza sapere a cosa andavo incontro, e il 31 luglio 2017 l’ho lasciato piangendo».
IL CENTRO REGINA PACIS
– Ci racconta cosa è il Centro Regina Pacis?
«Il centro Regina Pacis si trova a Quarto Officina e si occupa di immigrati, ragazzi che vivono la misura cautelare del carcere di Nisida e, da qualche anno, anche dell’inserimento nel mondo del lavoro di ragazzi con deficit, ragazzi diversamente abili. Ho visto con i miei occhi e ho sentito le testimonianze dei ragazzi immigrati che mi raccontavano la loro storia per venire in Italia: finché uno la vive sentendola dalla televisione è un conto, ma quando un ragazzo ti dice “Io per non sentire freddo, mi sono coperto con il cadavere di un mio amico, sul barcone, in attesa di arrivare al porto”, vi assicuro che è un’esperienza totalmente diversa dal sentire la notizia al telegiornale».
– È un percorso abbastanza lungo, che dimostra come i tempi del Signore sono diversi da quelli che pensiamo noi.
«Ci sono stati 5 anni di seminario maggiore, l’anno successivo con l’ordinazione diaconale e quella presbiterale di pochi giorni fa. Il percorso è durato nove anni e mezzo, a riguardarli adesso mi fanno ringraziare Dio per questo cammino di formazione, anche se uno vorrebbe solamente andare avanti perché si sente già pronto, ma, col senno di poi, comprende come quelle tante piccole esperienze, anche le parole rivolte da una persona che, probabilmente non si incontrerà mai più nella vita, hanno lasciato una traccia indelebile in quello che è il percorso di vita fatto».
IL RUOLO DI DON AGOSTINO
– Considerata la mia stima nei suoi confronti, immagino che un ruolo importante nella sua storia lo abbia avuto Don Agostino.
«Sicuramente. In quel breve discorso di ringraziamento che ho letto alla fine della prima celebrazione eucaristica che ho presieduto il 24 giugno, ho ringraziato la comunità parrocchiale, la mia famiglia e tutti coloro che, in un modo o in un altro, si sono avvicendati nel mio cammino. Il ringraziamento più grande, ovviamente, va a Don Agostino, il parroco che mi ha iniziato alla vita cristiana, perché è lui che mi ha battezzato, è lui che, più di ogni altro, ha seguito i miei passi, ha visto anche la mia crescita nei tanti momenti di difficoltà e tantissimi momenti di gioia. Grazie proprio al suo esempio, ho detto il mio sì a Dio, perché in Don Agostino ho sempre visto un uomo e un sacerdote dal carattere difficile, ma estremamente coerente con quelle che sono le promesse che si fanno durante l’ordinazione presbiterale, con un fortissimo senso di obbedienza, con un grande amore verso la Diocesi e la certezza, soprattutto di fronte alle tante difficoltà che si vivono in qualsiasi cammino e in particolare quella adesione a Cristo nella via del sacerdozio ministeriale, che ci sarà sempre l’abbraccio di Dio e l’abbraccio della Vergine Maria».
– Lei è nato in questa parrocchia ed è diventato prete in questa parrocchia. C’è il rischio di sentirla troppo sua?
«Ho vissuto 4 anni e mezzo di esperienza pastorale nella parrocchia di Fontana con Don Pasquale Mattera. Il rischio di sentire troppo propria la parrocchia c’è nella misura in cui non ci sia uno stacco dalla dinamiche di una vita parrocchiale o di un luogo sicuro. Io ringrazio il seminario e la diocesi che mi hanno dato la possibilità di vivere tante esperienze che mi hanno fatto aprire lo sguardo, allargarlo, con i 4 anni di pastorale vissuti nella parrocchia di Fontana, con il cammino di Santiago, con le due settimane vissute alla missione “Speranza e carità” a Palermo con Frate Biagio Conte che ho avuto la grazia e la fortuna di conoscere. Essere ritornato qui è stata una decisione del Vescovo Pascarella quando, poco prima della ordinazione presbiterale, mi disse che sarei stato spostato di nuovo in Parrocchia a San Pietro.
Ripeto, non sento questa difficoltà di vivere in luoghi dove sono cresciuto, perché ho avuto la possibilità e la grazia di avere uno sguardo che andasse oltre quelli che sono i confini parrocchiali, ho incamerato un bagaglio di tante esperienze, di tante persone e parole che mi hanno fatto capire che la vita del sacerdote non si confina nei limiti parrocchiali, siano questi quelli della propria parrocchia di nascita o di una qualsiasi altra. Per chi sceglie come me di diventare sacerdote diocesano, la preoccupazione più grande è quella di poter servire bene il Signore ovunque il Signore e il vescovo ispirato da Lui decida di affidarmi».
IL RAPPORTO CON IL VESCOVO VILLANO
– Due persone hanno un ruolo importante. Il primo è Don Marco Trani, che dovrebbe essere il coordinatore parrocchiale anche di questa parrocchia, l’altro è il nuovo Vescovo Villano che, immagino, lei abbia già conosciuto. Con loro quali sono i rapporti?
«Con Don Marco Trani c’è un ottimo rapporto, perché l’ho conosciuto prima che diventasse sacerdote. C’è molta più familiarità, anche considerata la poca differenza di età. Con il Vescovo Villano ho avuto modo di avere molti momenti di incontro, anche perché è venuto più volte sull’Isola. È anche colui che si occupa dei rapporti con il clero giovane sia delle Diocesi di Pozzuoli che di Ischia ed è una persona coerente con se stessa, molto risoluta, quindi anche della sua nomina a successore di Pascarella siamo stati tutti estremamente felici».
– Sono giorni particolari: quello di San Pietro e Paolo è il momento più importante della parrocchia di Santa Maria delle Grazie in San Pietro. Il suo arrivo, forse, rende questa festa anche più festa. Immagino che intorno alla sua ordinazione ci sia quel sentimento di unione che, magari, poteva non esserci se non ci fosse stato lei.
«Ho sempre vissuto la festa di San Pietro come uno dei momenti più aggregativi della comunità parrocchiale. Si, probabilmente è vero. La mia ordinazione è stato uno dei motivi per vivere ancora di più la comunità parrocchiale, questo sì».
– Ricordo che la comunità parrocchiale di San Pietro è sempre stata molto molto attiva. Adesso come si vive? Quale è la condizione e che comunità ha trovato? Cosa le hanno chiesto e quale sarà il suo impegno?
«Il mio impegno adesso e fino a che non decideranno quale sarà la mia destinazione, è continuare a spendermi per la Parrocchia come ho sempre fatto. Diventando sacerdote, ovviamente, gli impegni sono diversi ed è necessario garantire anche la semplice presenza per l’ascolto delle persone che vengono in Parrocchia. Cercherò, ovunque il Signore vorrà che io vada, di spendermi al massimo delle mie capacità, sempre sotto il suo aiuto».
– Vedo che non indossa una polo normale, ma una polo che le permette di poter dimostrare di essere un prete. Il detto che l’abito non fa il monaco è vero fino a un certo punto, abbiamo bisogno di punti di riferimento, di obiettivi, di abiti da riconoscere. Lei come la vive?
«Con grandissima libertà. Indosso questa polo come ne indosserei un’altra. Non è il colletto di plastica a fare il prete. Certo, può essere un simbolo di riconoscimento, ma come lo è lo stetoscopio sulle spalle del dottore o la borsa di pelle dell’avvocato. Non c’è una volontà di imporre uno status. Potrei portare anche questa polo senza il pezzo di plastica, con una croce o senza niente, rimarrei comunque un sacerdote».