Dopo le restrizioni pandemiche, anche la festa del Patrono dell’isola San Giovan Giuseppe può essere celebrata pienamente come nel passato. Di questo appuntamento e di altri temi abbiamo parlato con don Giuseppe Nicolella.
Ischia torna a vivere la festa di San Giovan Giuseppe un po’ come spettacolo e un po’ come evento di fede. Ma in questa nostra società, avere un riferimento semplice come ad esempio i festeggiamenti in onore di San Giovan Giuseppe, o come potrebbero essere anche quelli di San Vito a Forio, quanto serve?
«Avere punti di riferimento è sempre importante. Penso che ogni essere umano, in una maniera più o meno conscia, ne abbia. Anche chi in maniera istintiva fa riferimento all’esempio del genitore. In fondo sto dicendo che la natura umana ha la necessità di avere dei punti di riferimento. Ora la “festa” serve proprio per focalizzare l’attenzione su quelli che, nel corso del tempo, sono stati scelti sia dalla Provvidenza, ma poi anche proprio dal popolo di Dio come punti di riferimento, come modelli da seguire, come patroni, come coloro che pregano Dio in nostro favore.
Per il popolo di Ischia San Giovan Giuseppe della Croce, ovviamente, occupa un posto tutto particolare, perché è l’unico Santo da calendario e l’unico Santo ufficiale venuto fuori da questa nostra terra, dalla nostra isola. E’ ovvio che al cospetto di Dio noi speriamo che già tutti gli isolani defunti stiano con il Signore, però lui è “il più bel fiore d’Aenaria”, come lo chiamava monsignor Onofrio Bonocore. Per ora è rimasto l’unico fiore accertato, proprio con l’aureola. Guardare a San Giovan Giuseppe della Croce significa veramente vedere come chi si affida totalmente a Dio possa avere una vita straordinariamente bella. Perché poi, nel rileggere la vita di San Giovan Giuseppe della Croce, veramente si può fare esperienza di come il cristiano sia chiamato a una vita che si realizza, che ha senso nella luce.
È stato un uomo felice nella scelta che ha fatto. È stato un uomo che si è donato totalmente, ma non con la faccia triste di chi sta portando un peso indesiderato, bensì come chi ha abbracciato l’amore del Crocifisso e per questa scelta è diventato l’amore crocifisso anche lui. Per cui, se noi potessimo vivere adesso nella Napoli del principio del Settecento, vedremmo un frate felice di aver scelto di seguire Cristo nella povertà, nell’obbedienza, nella castità, nella dedizione alla sua famiglia religiosa, nella comunione con i fratelli, quei fratelli che lo hanno fatto soffrire non poco. Giovan Giuseppe della Croce sarà per anni continuamente calunniato, attaccato e sarà, tra virgolette, costretto a difendersi. Però sceglie una strada di difesa che oggigiorno sembra quasi follia. Giovan Giuseppe Della Croce semplicemente porta pazienza, sceglie il silenzio e ama quelli che addirittura lo accusano ingiustamente. Poi la verità si farà strada e lui sarà scagionato da qualsiasi forma di accusa e tutti i suoi sacrifici porteranno invece a una serenità nella provincia napoletana degli Alcantarini. Ma la sua è una vita bella. Quindi averlo come punto di riferimento significa riconsiderare che noi siamo chiamati ad avere una vita bella, serena, di donazione d’amore. Questo non può mettere tristezza. La scelta di amare è un segno semplice».
L’ORGANIZZAZIONE DELLA FESTA
In qualche modo, don Giuseppe, stai traghettando la comunità dello Spirito Santo. Questa non è la tua comunità. C’è una differenza nel viverla e nel vivere una festa come questa?
«Mi state conferendo un compito forse un po’ esagerato… Io sto in questa Chiesa da prima di diventare parroco di Sant’Antuono, perché Strofaldi mi volle canonico qui nella Collegiata già alla fine del 2009. La mia nomina porta la data del 25 dicembre 2009, poi presi possesso dell’ufficio canonicale un mese dopo, il 25 gennaio del 2010. A Sant’Antuono, invece, entrai il 12 aprile di quell’anno, per cui effettivamente, come gli altri sacerdoti canonici sono di casa qui. Il nostro compito è quello di promuovere il culto in onore del patrono San Giovan Giuseppe. Nell’attuale situazione la parrocchia che vive qui, quindi la parrocchia di Santa Maria Assunta nel santuario Diocesano di San Giovan Giuseppe della Croce, effettivamente sta vivendo un momento di transizione, perché l’anno scorso il parroco don Carlo Candido lasciò questo ufficio. C’è stato un anno di amministrazione del vicario don Gaetano Pugliese, che è ancora amministratore parrocchiale e tra pochi giorni entrerà il nuovo parroco, don Pasquale Trani. Un anno di transizione.
Per quanto riguarda la festa, il Capitolo sta aiutando l’amministratore ad affrontare quello che è un impegno. Come diceva un mio prozio da sempre nel comitato di San Vito, “è una gatta da pelare”, e quindi è una “rogna” per certi versi e i problemi non mancano. E lo abbiamo visto: con il maltempo salta tutto. Bisogna riprogrammare, affrontare tante difficoltà, ma penso che faccia parte della vita e non ci possiamo lamentare di queste cose, figuriamoci. In fondo questa è la comunità di fede».
Facciamo un po’ i tifosi?
«Sempre Forza Napoli».
LA PARROCCHIA DI SAN VITO A ISCHIA
Sempre forza Napoli e questo va bene, abbiamo guadagnato la nostra buona azione di oggi. San Giovan Giuseppe o San Vito?
«Ma non c’è competizione tra i Santi! Io sono nato a Forio, sono un foriano doc. Sono cresciuto sotto la palma di San Vito e San Vito è nel mio cuore e occupa un posto privilegiato, è il mio Santo di riferimento. Ma non c’è una competizione assolutamente con San Giovan Giuseppe, anzi. Il piano della Provvidenza è chiaro e non dobbiamo mai dimenticare che questa chiesa ha ospitato per secoli, per quattro secoli, la parrocchia di San Vito, non quella di Forio. Quella di Forio rimane attualmente la più antica parrocchia dell’isola, ovviamente dopo il titolo dell’Assunta. Ma il titolo dell’Assunta peregrina continua a peregrinare.
Invece il titolo parrocchiale di San Vito è lì, su quella collina, almeno dal IX secolo. Qui a Ischia c’era una parrocchia dedicata a San Vito e la sede si trovava in via Vecchia Campagnano (‘a Mbrecciata). Lì c’era questa chiesa dedicata a San Vito, però doveva essere una sede parrocchiale abbastanza povera e ridotta male soprattutto dalle eruzioni del 1301 del 1302, per cui il titolo parrocchiale fu spostato in questa chiesa. Infatti nel frattempo, grazie al ceto dei marinai, la cappella era stata trasformata appunto in una chiesa più grande ed era sempre più curata proprio perché c’era questo ceto che se ne prendeva cura. E qui è esistita dal ‘400 fino al 1972, se non sbaglio, la parrocchia di San Vito nello Spirito Santo. Con l’elezione della Collegiata, poi, il Papa volle così precisare il titolo “parrocchia di San Vito e dello Spirito Santo, la parrocchia collegiale di San Vito e dello Spirito Santo”. I canonici venivano anche eletti come parroci e tra i canonici ce n’era uno che doveva essere il “curato”.
Poi nella risistemazione del borgo e della città di Ischia, dove c’erano due parrocchie proprio una di fronte all’altra, lo Spirito Santo dell’attuale cattedrale, diventata parrocchia da poco, dal 1819 si intervenne. Allora il Vescovo Parodi volle spostare questo titolo nella chiesa del Buon Pastore, ma tutto sommato San Vito e San Giovan Giuseppe qui hanno convissuto. Qui c’era l’altare dove doveva essere esposto il quadro di San Vito perché era il titolare della parrocchia. Quindi tra loro due, non solo in Paradiso, ma anche qui, persino qui a Ischia, non c’è stata competizione, ma c’è stata una pacifica convivenza. Figuriamoci nel mio cuore, convivono tranquillamente tutti e due».
SENZA DIO L’UOMO DIVENTA BELVA
In conclusione. Viviamo in un mondo che stiamo riscoprendo ormai sempre più selvaggio, più cattivo, più aggressivo. Come nella Bibbia, i cuori dei piccoli diventano sempre più violenti. Pensando ai fatti di cronaca della vicina Caivano e agli altri, qual è il messaggio che dobbiamo comunque cogliere?
«Questa è una domanda non difficile, che però vorrebbe forse una riflessione molto più articolata di quella che si possa fare in poche battute. La società non è più cattiva e la società che noi abbiamo costruito nel corso degli anni è la nostra società.
Però vorrei fare una premessa se mi fosse possibile. Noi focalizziamo la nostra attenzione solamente sul nostro mondo, sul nostro Occidente. Penso che dobbiamo avere uno sguardo un pochino più largo. Sembra paradossale, ma quanto più una tecnologia ci fa comunicare con il mondo intero, quindi manda un messaggio e in pochi secondi è arrivato in Giappone, però, paradossalmente, la nostra attenzione egoisticamente si concentra solo su quello che accade a casa nostra. Queste notizie ci sono, sicuramente sono gravi, però non sono più gravi di quelle che magari potremmo apprendere da tante altre parti del mondo in questi giorni.
E’ qui a Ischia un vescovo del Burkina Faso, una delle nazioni più povere dell’Africa. E chiacchierando con lui, veramente mi veniva questo pensiero, questo condividere quando lui ha raccontato quello che già si sapeva. Per esempio in Burkina Faso i bambini vengono sfruttati nelle miniere di oro o anche per l’estrazione di minerali, che però servono per costruire i nostri cellulari, le batterie per le macchine elettriche, l’oro che viene praticamente rubato dalla Francia per i suoi interessi. E questo non fa più scalpore. Perché? Perché noi siamo concentrati solamente sul nostro mondo. Caivano è una notizia grave come quella dello stupro di Palermo, come tante altre cose ed è una notizia che tutto sommato ha preso la nostra attenzione per uno, due giorni. Poi ci concentreremo su qualche altra cosa di casa nostra, che sia il pettegolezzo del giorno o una notizia un pochino più grande. Ma non abbiamo uno sguardo sufficientemente largo per capire che l’umanità è più di casa nostra.
La festa dovrebbe magari darci l’occasione di allargare lo sguardo all’umanità intera. Ma tornando a noi, noi raccogliamo i frutti dei semi che abbiamo piantato e che sono diventati poi l’albero. Diceva San Luigi Orione “Togli Dio dalla vita degli uomini. Gli uomini diventeranno delle bestie da un punto di vista di fede”. Quando non c’è più questo rapporto con Dio, l’uomo diventa veramente una belva. E forse dovremmo renderci conto che il nostro Occidente è senza Dio. O Dio o niente è bello, ma noi stiamo vedendo che nella vita, negli uomini c’è un impoverimento, c’è un imbarbarimento. E noi qui, purtroppo, abbiamo allontanato anche le nuove generazioni da Dio. E queste sono anche delle conseguenze. Che cosa si può fare? Solo analizzare? L’analisi è importante, ma c’è bisogno della cura e quindi penso che come Chiesa dovremmo forse pensare a una cura anche di fatto, perché nella nostra Europa, purtroppo, attualmente c’è una sorta di dietro front.
Purtroppo anche in ambito ecclesiastico c’è quasi una resa nei confronti delle cose che non vanno e io spero che nel futuro, guardando ai Santi, invece possa esserci una controffensiva e una manovra di attacco, oserei dire, ma non per conquistare un ruolo sociale o di nuovo, non per rifondare la cristianità politica di Carlo Magno. No, ma veramente per dare un aiuto al mondo in cui viviamo, dove può esserci un modo diverso di vivere l’umanità nella quotidianità e quindi dare di nuovo quel sapore del Vangelo, quella bellezza che purtroppo ultimamente è andata un po’ persa».