EMANUELE VERDE | Scrivere di storia senza essere uno storico è sempre complicato. Il rischio di strafalcioni o al meglio di confezionare un pezzo pieno di retorica è altissimo. Per non parlare poi del condizionamento dovuto alle simpatie e alle idiosincrasie di chi scrive, tra chi vuole andare per forza controcorrente e chi, al contrario, preferisce ergersi a difensore della “verità ufficiale”. Tutte queste difficoltà sono contemporaneamente presenti al massimo livello quando si ragiona del 25 aprile.
Come evitarle allora? La ricetta chiaramente non ce l’ho, però mi regolo così: cerco fonti autorevoli, capaci di abbinare profondità di pensiero e rigore documentale. Insomma, mi affido ai libri di storia scritti da storici di professione che non sempre vuol dire essere degli accademici, però – parere personale – meglio che lo siano.
Venendo a dama, c’è un libro uscito a fine 2023 “La resistenza lunga” di Simona Colarizi, professore emerito di Storia Contemporanea alla Sapienza, che ricostruisce in profondità tutta la vicenda resistenziale culminata poi nei fatti dell’aprile del 1945: la proclamazione, il 25 di quel mese, dell’insurrezione generale da parte del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (da cui deriva la festa); e la morte violenta, qualche giorno dopo, di Benito Mussolini esposto al pubblico ludibrio in Piazzale Loreto.
L’ultimo paragrafo del libro spiega bene le pieghe, le contraddizioni e le rivalità in seno al movimento partigiano. Per esempio, il timore di Togliatti di fronte all’eventualità che in Italia succedesse come in Grecia dove i partigiani comunisti, galvanizzati dall’avanzata dell’Armata Rossa, avevano cominciato a combattere contro i partigiani monarchici e democratici confidando nell’aiuto di Mosca in chiave rivoluzionaria. Salvo poi accorgersi, dopo il bombardamento di Atene da parte dell’aviazione inglese, che Stalin non avrebbe mosso un dito per rispetto delle sfere d’influenza che andavano sempre più delineandosi tra le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale.
In Italia, del resto, per quanto i comunisti fossero numericamente e organizzativamente egemoni tra le varie anime della Resistenza, le armi con cui i partigiani combattevano nazisti e repubblichini di Salò provenivano per la gran parte dalle forze alleate. Un segno inequivocabile delle “sfere d’influenza” a cui si è fatto cenno poco sopra con la consapevolezza ulteriore, nel caso dei comunisti italiani, di non avere alternative alla lotta armata per potersi accreditare a guerra finita come classe dirigente. E pazienza, perciò, se le armi erano appunto di provenienza angloamericana.
Di contro, socialisti e giellini credevano in un antifascismo integrale, il cui punto di caduta non era tanto la guerra civile in Italia, ma la guerra civile nel Vecchio Continente per realizzare sul campo l’ideale europeista del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. Insomma, da un lato il realismo tattico di Togliatti; dall’altro l’idealismo socialista, democratico e repubblicano (non è affatto una brutta cosa!) di chi voleva chiudere i conti con la dittatura indipendentemente dalle suddette “sfere d’influenza”.
O, detto diversamente, indipendentemente dal primato schiacciante della politica estera.
Del resto, ed è un’altra contraddizione, senza l’idealismo di tanti giovani italiani non ci sarebbe stata la Resistenza: un idealismo che al fondo sfidava il primato della politica estera non solo sul versante sovietico, come abbiamo visto nel caso del PCI, ma anche sul versante alleato contravvenendo a quanto veniva stabilito dai vertici militari inglesi e americani di stanza in Italia, tutt’altro che disposti a dare spazio più del dovuto alla lotta partigiana.
Ancora. La stessa morte di Mussolini è un grumo di contraddizioni. C’era davvero bisogno di ammazzare il duce del fascismo nel modo in cui sappiamo invece di processarlo?
O invece ammazzarlo fu il modo migliore perché non saltassero fuori le carte di un accordo segreto con Churchill intenzionato a muovere guerra all’Unione Sovietica? Piccolo inciso: ancora oggi, 80 anni dopo, colpisce la determinazione inglese nell’appoggio all’Ucraina in chiave anti russa, il che dimostra come il tempo storico delle nazioni sia assai diverso da quello ordinario degli uomini.
E ancora: c’è il tema, di cui io per primo so pochissimo, dell’adesione di molti giovani e giovanissimi alla Repubblica di Salò. Una scelta di campo del genere può essere liquidata con sufficienza come si trattasse di tifo calcistico o merita di essere approfondita anche sotto il profilo ideale?
Ragionare di tutte queste cose significa ragionare criticamente del 25 aprile, la cui celebrazione, voglio dirlo forte e chiaro, per me non è in discussione. Anzi, è proprio da queste fertili contraddizioni tra cui, come appena detto, vanno debitamente considerate pure le motivazioni di chi stava dall’altra parte, che scaturisce l’insegnamento migliore della Festa di Liberazione: l’importanza del pluralismo e della democrazia direi proprio come stile di vita.
Sperando di non aver scritto a mia volta delle banalità.