GIOVANNI CERVERA | Quelli dell’ultimo week end sono stati giorni decisamente tristi. Quando ti lascia un caro amico come Michele ti assale una tempesta di ricordi e con lui è anche una parte di te che se ne va, dissolvendosi nel dolore del distacco. Purtroppo è stato altrettanto, in tempi abbastanza recenti, per la dipartita di altri amici.
Mi confortano al riguardo il pensiero, le riflessioni di un sacerdote che stimo molto, anch’egli isolano, ma di altro scoglio, secondo cui anche in questo caso, come per altri del nostro vivere quotidiano, il dolore del distacco possa essere letto come prologo di momenti più belli.
Per chi crede in un Dio misericordioso insorge la gioia, la certezza che gli affetti recisi dalla sua dipartita rinascano in una vita soprannaturale, per chi è più legato ai valori terreni si afferma il piacere del ricordo della condivisione, dell’amicizia, la soddisfazione, la convinzione che chi ci manca, per il suo vissuto continui a vivere, ad esserci, nella memoria di tanti.
Michele, amico fraterno, persona a modo come poche, ottimo professionista, fra l’altro tutor premuroso dei miei occhi bizzarri, aldilà di ogni altro modo con cui è possibile ricordarlo, è stato uno di quelli che ha saputo vivere i propri giorni a braccia aperte, incontrando sulla propria strada tanta gente da abbracciare. Al riguardo mi piace credere che ora nella valle dei giusti possa presto incontrare mio padre, persona di altrettanta sensibilità. Insieme condivisero momenti di alto profilo umano, quelli della storia che segue che ho titolato La favola de “Il piccolo dai capelli rossi”. Erano gli anni ’80, qualcuno la volle definire una storia da libro Cuore, di certo, al di là di ogni enfatizzazione, fu un’espressione significativa della grande bellezza dell’umana solidarietà, della forza interiore di rapportarsi agli altri, fino a condividerne sogni e bisogni. Ciao Michele!
La favola de “Il piccolo dai capelli rossi”
C’era una volta un bel bambino, un simpatico bambino dagli occhi vispi e dai capelli rossi. La natura era stata avara con lui, era nato affetto da osteogenesi imperfetta, una malattia rara delle ossa, a cui la scienza non era ancora riuscita a dare risposte compiute e che tuttora è oggetto di studio e di ricerca. A chi ne fosse affetto non restava che rassegnarsi alla sedia a rotelle o, nella migliore ipotesi, all’uso delle stampelle, e ad accettare con rassegnazione il proprio stato ed il proprio aspetto. Il suo pianto di dolore, quando come gli altri della sua età cercava di gattonare e si animava nel suo box, fu ben presto un eloquente segnale d’allarme del suo malessere, una sofferenza altrettanto dura ed angosciante per chi gli stava vicino, che avrebbe dato tutto se stesso perché ci fosse un rimedio. Ancor di più quando, crescendo, ogni minima caduta lasciava segni evidenti.
Ma come avviene nelle favole, anche per “il piccolo dai capelli rossi”, un bel giorno si manifestarono degli angeli custodi, che condividendo ogni “passo” e supportandosi a vicenda si occuparono di lui. Non erano “maghi”, “fate”, “cacciatori”, “principi azzurri”, avevano le sembianze di due “uomini buoni”, di quelli che interpretano con altruismo i propri giorni, che vivono a braccia aperte, incontrando così sulla loro strada tanta gente da abbracciare.
Presto cominciò una lunga odissea fatta di radiografie, analisi, visite specialistiche, pareri di pediatri ed ortopedici. Gli esiti, dapprima sconfortanti per quanto fosse incerta ogni diagnosi, lo furono altrettanto quando, con ulteriori approfondimenti, la stessa fu certa ma spietata: osteogenesi imperfetta, proprio quella che si temesse di più. Per opinione diffusa ci sarebbe stato poco da fare, ma solo per chi si rassegna e perde la speranza “la notte non ha una nuova alba”. Così fiduciosi si chiesero lumi al dott. Pini dell’Istituto Ortopedico Toscano il quale, pur confermando la diagnosi, non escluse che in futuro avrebbero potuto manifestarsi segnali più incoraggianti.
Monitorando l’evolversi della malattia, quella tenue luce intravista in fondo al tunnel cominciò man mano a rivelarsi più splendente, era il 1983. Lo stato osseo cominciava a mostrare quei miglioramenti che tutti si auspicavano, ciò confermandosi nel tempo avrebbe permesso di intervenire chirurgicamente. Le tecniche tradizionali in questi casi erano comunque particolarmente laboriose ed abbastanza invasive e gli esiti non sempre scontati, per questo fu lo stesso dott. Pini ad indirizzare il piccolo paziente all’ospedale di Lecco, dove si cominciava a praticare il metodo “Ilizarov”, una nuova tecnica, che nella fattispecie riteneva più appropriata. Era una novità assoluta nel campo della ortopedia. Solo qualche anno prima i prof. Villa e Catagni, assistenti del primario, il prof. Cattaneo, si erano recati a Kurgan, in Siberia (ex Unione Sovietica), dove il Prof. Ilizarov applicava la sua tecnica, con cui era possibile, mediante cilindri fissati alle ossa con fili di acciaio, produrre allungamento osseo, correggere deformità degli arti, trattare mancati consolidamenti di fratture e deformità congenite nell’infanzia. Patologie che in precedenza potevano portare anche all’amputazione.
Gli spostamenti verso Pisa, Lecco furono frequenti, altrettanto i lunghi periodi di degenza per ulteriori indagini ed approfondimenti. Nella primavera del 1985 l’equipe del prof. Cattaneo sciolse le ultime riserve: la chirurgia avrebbe fatto il suo corso, lo si sarebbe fatto in due fasi. Stava spuntando quella “nuova alba” tanto attesa. Il primo intervento venne eseguito il 4 giugno, seguito da un periodo di rieducazione nel centro specialistico dell’Ospedale di Beldosso – Longone al Segrino (CO), il secondo il 6 dicembre, a cui ne fece poi seguito ancora un altro per l’allungamento del tendine di Achille della gamba destra. Erano passati gli anni, fiduciosi di vederlo un giorno in piedi, un susseguirsi di prove non facili per piccolo ed altrettanto impegnative per chi gli stava accanto. Gli esiti confortanti degli interventi confermarono i buoni auspici, finalmente quel sogno poteva avverarsi. Quello del ’85, per quanti anche solo emotivamente coinvolti, fu un Natale di grande gioia, decisamente speciale.
Il direttore Domenico Di Meglio su “Il Settimanale d’Ischia” titolò “IL MIRACOLO DI NATALE”
La “tempesta” di ansie, di affanni, di aspettative, di emozioni, vissuta intimamente da ognuno, che giorno per giorno andò caratterizzando quel cammino di fiducia e di speranza è difficile da rendere compiutamente nel corso del racconto. Altrettanto arido si rivelerebbe voler esprimere la straordinaria carica, l’energia che man mano, sempre di più, il piccolo eroe seppe trasmettere a chi si prendeva cura di lui.
Tutto era stato possibile anche grazie alla perfetta organizzazione delle strutture sanitarie che avevano accolto il piccolo eroe ed il sostegno di tante persone comuni, fra le quali i giovani dell’Associazione Volontari Ospedalieri (AVO), molto attivi nelle stesse, encomiabili specie nei lunghi periodi post operatori e di riabilitazione. Durante la permanenza al Centro di Beldosso – Longone al Segrino il piccolo poté anche frequentare con buon profitto la quinta elementare, senza alcuna difficoltà per la sua condizione, in primis quella per gli spostamenti a scuola. In proposito, una volta tornati alla cruda realtà isolana, dove le istituzioni solo un bel po’di anni dopo avrebbero maturato una maggiore attenzione in materia di disagio sociale, per i suoi angeli custodi fu proprio quest’ultimo l’ennesimo, assurdo, ostacolo da superare per la frequenza alla prima media.
Così la favola de “il piccolo dai capelli rossi” si avviò al suo lieto fine. Come era stato per i suoi coetanei, anche per lui arrivò il giorno della Prima Comunione, un giorno speciale vissuto gioiosamente, in piedi, con quanti gli volevano bene. Finalmente era tempo di “normalità”.