sabato, Novembre 23, 2024

Il percepito come (scelerata) misura di tutte le cose

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Eliana De Sanctis| Secondo le regole correnti dello studio della lingua, un nome si definisce astratto non solo perché riferito a qualcosa che “non si tocca”, ma perché non può essere percepito da nessuno dei sensi. La parola “silenzio”, che un tempo nessuno di noi avrebbe esitato nel collocare sotto la voce “astratto”, è ritenuta “concreta” in quanto percepibile come sospensione del suono. Il linguaggio corrente, i modi di dire, le espressioni verbali rivestono i costumi, le mode e le categorie di un’epoca, pertanto non sembra stupire poi tanto che la percezione sia diventata la degna «misura di tutte le cose», per dirla con la celebre massima di un filosofo greco.

Si definisce percezione la conoscenza appresa immediatamente tramite l’utilizzo dei cinque sensi; è un sapere primitivo e rudimentale e, quindi, non assoluto. Essa è in realtà solo una forma di conoscenza tra conoscenze, le quali possono essere raggiunte attraverso le altre facoltà spirituali di cui siamo dotati: l’intelletto, la ragione e il sentimento. Si può ad esempio stabilire che l’antibiotico è la cura idonea per un’infezione grazie al vaglio scrupoloso dei dati dell’esperienza che hanno portato, nel tempo, a definire questa soluzione come la più intelligente ed efficace. O si può asserire l’esistenza di Dio perché razionalmente essa darebbe validazioni forti alla struttura del mondo e ci libererebbe dalle aporie, cioè quei dilemmi insopportabili e senza via di uscita che attanagliano chi si barcamena in certe discussioni filosofiche.

E, non in ultimo si può partecipare dello stato emotivo di un altro essere, identificarsi nella sua condizione interiore e sociale semplicemente perché così ci si sente di fare, spinti dalla forza misteriosa dell’empatia e della solidarietà. Questi appena elencati sono tutti tipi di conoscenza legittimi perché, come si accennava, non esiste una conoscenza assoluta ma tante quante sono le nostre facoltà di conoscere. Eppure l’opinione pubblica, le campagne di marketing e, non in ultimo, la politica fanno un uso spropositato del termine “percepito”, generando disinformazione e caos. L’intero incontro olimpionico di Carini e Khelif è ripiegato sulla validità della percezione che quest’ultima aveva di se stessa, così come intere battaglie politiche, rivendicazioni sociali, dibattiti culturali virano in questa direzione.

Al di là dell’impatto pregnante e della strumentalizzazione politica, si tratta di un’argomentazione insensata: il transessuale non si percepisce uomo/donna, ma si sente tale. Siamo su due gradi di conoscenza assolutamente diversi, eil transessuale (ma sia chiaro è solo un esempio) ha di se stesso una conoscenza emotiva, non si dichiara uomo/donna perché i suoi sensi glielo hanno suggerito, ma perché questo avverte nel profondo del proprio animo. La proposizione andrebbe riformulata: “Il transessuale si sente uomo/donna, ma percettivamente si appura come uomo/donna”. La questione etico-politica dovrebbe cambiare i termini della propria battaglia, ossia se sia giusto o meno pretendere la superiorità giuridica della percezione rispetto a quella di sentimento, intelletto e ragione nella circostanziata necessità di gare agonistiche, condivisione di spazi carcerari e tutto quel genere di suddivisioni che a forza di cose richiedono una prevalenza dei dati materiali e biologici su quelli dello spirito.

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