Il nostro cervello è un organismo emotivo e sentimentale è proprio per questa condizione, necessita di viversi insieme agli altri. Nell’era digitale siamo apparentemente tutti i connessi, come mai era accaduto nella storia dell’uomo, eppure moltissime persone sperimentano una sorta di disconnessione, che risultava sconosciuta nelle comunità più ristrette del passato.
La solitudine è un’epidemia crescente oggi le neuroscienze ma anche gli studi sulla famiglia individuano storie e vissuti di bambini, ragazzi, genitori e anziani che attraversano l’l’esperienza del sentirsi soli.
Possiamo affermare che la solitudine è un problema di salute pubblica, può generarsi da condizioni patologiche legate all’alcolismo, alla tossicodipendenza, alla depressione, all’ansia, accade perché il nostro desiderio innato è invece quello di condividere e partecipare alla comunità e di generare rapporti, legami duraturi e quindi di aiutarci a vicenda, in effetti stiamo meglio insieme.
Ci si può sentire soli anche quando si è circondati da molte persone o quando si intrattengono rapporti con gli amici virtuali, conosciuti sui social media, la solitudine si impianta dentro e non è solo un’esperienza spiacevole sul piano psicologico, ma un male che diventa anche fisico.
Di solito si è portati a pensare che l’obesità, la sedentarietà e il fumo siano fattori di rischio per molte patologie croniche, e a volte non si nota la cosa più ovvia: non condividere i fatti della vita con altri esseri umani fa malare addirittura sembra influenzare l’aspettativa di vita. Alcuni neuroscienziati di Chicago hanno scoperto che la solitudine aumenterebbe la probabilità di morte prematura addirittura del 26% analogamente anche altri studi scientifici affermano che la solitudine è associata a una riduzione degli anni di vita simile a quella causata dal fumo di 15 sigarette al giorno. Il nostro bisogno di socialità appare fondamentale tanto quanto quello di nutrirci, come esseri umani non disponiamo di difese formidabili, non siamo la specie più forte, nella più veloce, eppure abbiamo avuto un successo sorprendente merito della nostra intelligenza e della capacità di instaurare relazioni con i nostri simili, la cooperazione riguarda anche altre specie animali ma noi l’abbiamo portata al massimo grado creando famiglie, comunità, Stati e organismi.
Alcuni risultati di esperimenti pubblicati sulla rivista Nature Neuroscience, hanno consentito di concludere che l’isolamento potrebbe essere paragonabile allo stress da digiuno quando i soggetti socialmente isolati vedevano foto di persone che interagivano si attivava nel loro cervello un segnale di desiderio simile a quello prodotto in coloro che venivano esposti a immagini di cibo dopo il digiuno. Dal punto di vista evolutivo sia l’isolamento che la denutrizione costituiscono minacce alla sopravvivenza, ma per quale via la solitudine si ripercuote sul corpo? attraverso gli stati infiammatori sistemici: stare soli accresce lo stress cronico, come conseguenza si riscontra un aumento dei livelli di cortisolo, l’ormone se prodotto in eccesso, ha un effetto dannoso sui processi cognitivi e può anche svolgere un ruolo di potenziamento dell’infiammazione, la neuroinfiammazione è correlata alla depressione ma anche al declino cognitivo.
I ricercatori hanno provato a indagare quale sia l’impatto della socialità e della sua assenza sul cervello anche se non è un parametro facile da misurare. Una prima osservazione è che le persone sole vanno incontro a perdite cognitive più rapide, lo ha evidenziato, tra gli altri uno studio significativo che ha monitorato per 12 anni oltre 8300 individui con più di 65 anni, si è visto come gli anziani che frequentano poche persone o non frequentano nessuno, presentano alterazioni della beta-amiloide la proteina dell’Alzheimer.
Al contrario le interazioni sociali possono proteggere dall’invecchiamento e dalla neurodegenerazione: il risultato degli studi ci dice che le persone con legami forti hanno meno probabilità di subire un declino cognitivo, non a caso numerosi dati indicano come l’essere socialmente isolati e sentirsi soli sia correlato con parametri di infiammazione alterati.
Quando si è depressi diminuisce il volume di alcune regioni del cervello: come l’ippocampo, il talamo, l’amigdala, la corteccia prefrontale ma tale restringimento la cui entità è correlata alla gravità e alla durata della malattia può essere reversibile con la psicoterapia e le cure farmacologiche. L’umore cupo fa aumentare anche la neuro infiammazione più allungo una persona resta depressa più l’infiammazione cerebrale risulta significativa, le persone depresse non curate per oltre 10 anni rispetto a quelle trattate precocemente hanno una maggiore attivazione della microglia visualizzata tramite PET (tomografia a emissione di positroni un esame di medicina nucleare) una chiara indicazione di infiammazione cerebrale. Il nostro cervello è un organismo che predilige la cooperazione e si nutre attraverso le esperienze in pieno contatto con l’alterità.