La POLPA E L’OSSO di Francesco Rispoli | Queste mura sono strane: prima le odi,
poi ci fai l’abitudine e se passa abbastanza tempo
non riesci più a farne a meno: sei istituzionalizzato.
Tim Robbins (Andy), The Shawshank Redemption
(Le ali della libertà)
Infandum, regina, iubes renovare dolorem
(…) quaeque ipse miserrima vidi.
Virgilio, Eneide, II, 3-5
Uno “spazio degno di una vita reclusa” è un ossimoro. Forse si può pensare laicamente al carcere come attrezzatura civile. Purché ci sia speranza – come quando Francesco apre una Porta Santa a Rebibbia – di farne un luogo non “completamente altro”. Alcuni lo sanno: lo spazio circoscritto del carcere diviene “mondo”. E se lo spazio tra le cose, l’essere stesso è relazione, quello del carcere è un sistema di vita – la possiamo ancora chiamare così? – irrelato, una ni-entità!
Il rapporto dentro/fuori è, lì, fisico e mentale: «la costruzione fisica, materiale, concreta, tangibile di un coacervo di sensazioni, di sentimenti, di desideri, di “mancanze”, di dolore psicologico e fisico, laddove ogni istante del sentire e ogni sua sfaccettatura sono ampliati a dismisura, in una dimensione temporale e spaziale che è fatta sempre e solo di “ripetizione”» (M. Santangelo, Progettare il carcere, 2020). Nel carcere si addossano edifici, cortili di cemento, capannoni, caserme e chiese che fanno anche da teatro, sala da concerti, mensa per le grandi occasioni.
La molteplicità di questo assemblaggio – isolato dal mondo, fatto di sorveglianti e sorvegliati – si può elencare “à la” Perec. Si potrebbe persino – se non fosse banale, o sadico? – mutuare il suo “Vita istruzioni per l’uso”, disseminando elenchi, cataloghi, inventari, indici, schede, classificazioni e liste di oggetti, mobili, soprammobili, descrizioni minuziose.
In Perec però un elenco non è mai arido e senza significato, quand’anche “infra-ordinario”. Qui, su questa “vita altra”, in un terreo silenzio incombe invece una parola: “ripetizione”! Che fa da sfondo anche all’isolamento come “stato di osservazione”, da clinica psichiatrica: «un paesaggio di pietra (in cui si è) scuoiati dal silenzio. Un silenzio alieno, ostile, che ci consuma» (A. Magnaghi, Un’idea di libertà. San Vittore ’79–Rebibbia ‘82, 2014).