I Padri Passionisti, il cui ex convento di Casamicciola è stato già al centro di polemiche e di un procedimento giudiziario per lavori di trasformazione conclusosi con la prescrizione, si trovano a dover fare i conti con una ordinanza della Corte di Cassazione civile che li condanna al pagamento di una cospicua somma nell’ambito di una causa di lavoro. A portare in giudizio la Provincia Addolorata dei Padri Passionisti è stata appunto una ex dipendente difesa dall’avv. Elena Fortuna. Il giudice della Sezione Distaccata di Ischia aveva dato ragione alla lavoratrice del convento, accogliendo in parte le sue richieste per mancati pagamenti delle differenze retributive. La Corte di Appello aveva parzialmente riformato quella sentenza, “limando” la somma da pagare. L’Ente religioso non si è accontentato e ha impugnato anche quella sentenza chiedendone la cassazione. Ma gli è andata male.
Il nocciolo del contenzioso sta nella natura di quel “vecchio” rapporto di lavoro e di struttura sostanzialmente ricettiva del convento. Il collegio della Cassazione, infatti richiama la sentenza della Sezione Distaccata di Ischia che in riferimento alla vertenza nei confronti della «Provincia Addolorata dei Padri Passionisti, quale titolare di struttura alberghiero-ricettizia in Casamicciola Terme, condannava detto ente al pagamento in favore della ricorrente della somma di euro 109.597,95 a titolo di differenze retributive per il periodo di lavoro 1/1/1989 – 30/9/2006, parametrate a inquadramento IV livello CCNL Aziende del settore turismo, per mansioni di cuoca e all’occorrenza cameriera di sala e ai piani, a tempo pieno (rispetto ad assunzione a tempo parziale quale addetta ai servizi domestici)». Una bella differenza! Condanna che la Corte d’Appello confermava, ma riducendo la somma da pagare in «euro 89.354,46, di cui euro 15.384,60 a titolo di TFR ed euro 2.866,15 per lavoro domenicale».
STRUTTURA RICETTIVA ESTIVA
Il ricorso dei Passionisti ha parzialmente censurato la pronuncia di secondo grado «per omesso esame del fatto decisivo costituito dalla stagionalità esclusivamente estiva dell’esercizio dell’attività sostanzialmente alberghiera attribuita alla congregazione, omessa pronuncia sul capo di appello formulato in via gradata diretto alla liquidazione della retribuzione equa in relazione al CCNL Turismo per il solo periodo dei mesi estivi giugno – settembre».
Sostenendo anche la violazione di due articoli del codice civile, «il primo dei quali prevede l’applicazione di più contratti collettivi e il secondo la ricerca dell’equa retribuzione, contestando l’applicazione del CCNL Turismo all’intero rapporto di lavoro nato come domestico, trascurando il fatto decisivo della mera stagionalità estiva di un’attività del datore assimilabile a ricezione alberghiera e omettendo di decidere sul relativo motivo di appello».
Si batteva dunque sulla stagionalità della destinazione ricettiva del convento per “risparmiare” su quanto dovuto alla ex dipendente, che sarebbe stata una “domestica” e non una lavoratrice del settore alberghiero.
Ma la Cassazione ha giudicato il ricorso complessivamente infondato.
IMPUGNAZIONE “VIZIATA”
Nell’ordinanza si motiva tale decisione evidenziando che innanzitutto «in primo luogo, occorre registrare una certa sovrapposizione di profili di censura non del tutto tra loro compatibili all’interno del medesimo motivo».
Citando in proposito la giurisprudenza di legittimità «secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse».
Quanto alla prospettata violazione dell’art. 360, n. 5, ovvero l’omesso esame di un fatto decisivo, «la Corte d’Appello ha sostanzialmente confermato le statuizioni di primo grado (salvo che per l’accertamento di un orario parzialmente inferiore e per l’esclusione dal computo delle differenze di retribuzione riconosciute di alcune voci di natura strettamente contrattuale), così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante, nel senso che, quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.». Ovvero per motivi attinenti alla giurisdizione, per violazione delle norme sulla competenza, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, per nullità della sentenza o del procedimento.
NON EMERGE LA STAGIONALITA’
Venendo alla “sostanza” della questione, «i giudici di merito hanno accertato, nel caso concreto, lo svolgimento di attività lavorativa da parte dell’originaria ricorrente nell’ambito di quella che è stata riconosciuta come una struttura ricettiva gestita in maniera imprenditoriale, per tutto l’arco dell’anno (salve le differenti ore lavorate nel corso dei mesi invernali o estivi, a causa del maggiore o minore numero di ospiti)». Dunque «con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità». La sentenza della Corte di Appello è adeguatamente motivata in quanto ha chiarito che «la tipologia dell’attività concretamente svolta rende pertanto inadeguato ai sensi dell’art. 36 Costituzione il parametro del CCNL del lavoro domestico dal momento che è inequivocabilmente emersa la gestione da parte della comunità religiosa di una pensione con servizi organizzati di ristorazione e alloggio ai quali era addetta l’appellata.
Il tipo di impegno lavorativo e il contenuto professionale delle mansioni di una cuoca e di una cameriera di sala addetta a una struttura turistico-ricettiva impongono di valutare il compenso percepito considerando quale parametro equitativo la retribuzione base di un contratto collettivo per detto settore».
Sul punto l’ordinanza evidenzia che «d’altra parte, il riferimento al pieno regime di operatività durante la stagione estiva di attività turistico-ricettizia estranea alla mera cura e assistenza domestica dei componenti della comunità religiosa significa che negli altri mesi l’attività turistico-ricettiva risultava rivolta a un numero di ospiti minore (quindi con minore impegno orario), non che fosse di natura diversa». Tra l’altro nessuna prova è stata fornita che si trattasse in massima parte di lavoro domestico. Infatti per la Cassazione «ne consegue che, a parte il profilo di improcedibilità per mancata produzione del CCNL Lavoro domestico di cui parte ricorrente invoca l’applicazione totale o parziale, la questione della prevalenza di un contratto collettivo rispetto a un altro o della concorrente applicazione di diversi contratti collettivi, dalla quale eventualmente ricavare una violazione, richiede ineludibilmente una rivalutazione dei fatti, preclusa in questa sede di legittimità».
Nemmeno «tale questione è deducibile quale nullità, procedimentale o per omissione, restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” e avendo, nel caso di specie, la Corte esplicitato adeguatamente il percorso logico-argomentativo che l’ha portata a confermare l’accertamento fattuale operato dal Tribunale, traendone le conseguenze di legge in relazione alle rivendicazioni economiche attoree». Respinto il ricorso, la Provincia Addolorata dei Padri Passionisti dovrà pagare alla ex dipendente gli 89mila e passa euro statuiti dalla Corte d’Appello, oltre a 5.500 euro di spese di giudizio.