Pasquale Raicaldo | Deve avere due braccia grandi così, Carmine Barile, per abbracciare tutti quelli che definisce “amici prima che pazienti”, annunciando su Facebook che alla fine il momento della pensione è arrivato per davvero. Al 45° della ripresa – è giunto il momento di lasciarvi come medico di Medicina di Base”. E poi, per l’appunto: “Vi abbraccio uno ad uno augurandovi ogni bene”. E giù, centinaia di commenti. Per lo più increduli, perché Carmine è stato, è e sarà più di un medico. E come per tutte le cose che riteniamo indispensabili – affetti, amori, beni materiali e beni immateriali – chi l’avrebbe detto che un giorno avrebbe detto ‘stop’, come pure è nell’ordine naturale delle cose.
Intanto, perché non c’è mai stata, in lui, una vera linea di demarcazione tra l’uomo e il professionista: succede così, in chi fa il lavoro che ama. Va’ a capire dove siano i confini, quando bisognerebbe staccare il telefono – ah, il giuramento d’Ippocrate – o quando, semplicemente, bisognerebbe dedicarsi a sé stessi, ai familiari. No, Carmine ha sempre avuto chiara la missione della ‘cura’ degli altri, che ha orientato i suoi minuti, le sue ore, le sue giornate, i suoi mesi, i suoi anni.
Il medico dell’ascolto, soprattutto, in tempi in cui la medicina narrativa ha saputo finalmente ritagliarsi la sua dignità: occorre che il paziente parli e si racconti, perché è anche da un piccolo particolare – detto, sussurrato, lasciato intuire – che lo si giudica.
Qualche anno fa ho registrato, per la mia tesi di laurea in sociolinguistica, circa trenta ore di visite nel suo studio (insieme a sedute analoghe di altre professionisti).
L’obiettivo era comprendere i meccanismi della semplificazione linguistica: come chi padroneggia un sapere (scientifico, giurisprudenziale, tecnico) sia in grado di trasferirlo nel linguaggio comune, adeguandosi all’interlocutore.
Il titolo – “Dottò, faciteme così” – già sintetizzava l’esigenza di quest’ultimo di una comunicazione efficace, al netto del linguaggio specialistico, quello dei bugiardini per intenderci.
Ebbene, Carmine ha sempre saputo affiancare a una capacità non comune di effettuare le diagnosi – requisito essenziale di ogni buon medico – una predisposizione straordinaria all’empatia e alla comunicazione, quelle che oggi definiremmo ‘soft skills’.
Le sue conversazioni con i pazienti, cerchia della quale ho fatto parte, hanno così consegnato uno straordinario bignami di tecniche di comunicazione. Un medico in grado di farsi capire, adeguando il registro verbale all’interlocutore. E affidandosi spesso al dialetto, un codice efficace per semplificare, avvicinarsi, talvolta rassicurare.
Le metafore, poi: ogni patologia, ogni malessere, ogni diagnosi spiegata con esempi straordinariamente accessibili. Più che le parolone degli “Azzeccagarbugli”, alle volte serve soprattutto che l’altro comprenda. Anche quando c’è da capire la gravità di una situazione.
Ironia, tendenza alla sdrammatizzazione, amore della verità: senza sconti, ché non serve a nessuno ridimensionare la difficoltà di un percorso terapeutico. Serve, piuttosto, usare la parola giusta, che alle volte è utile, quasi come una medicina. Non tutti sembrano accedervi, alla parola giusta. Non tutti – tra i medici – mostrano di interessarsene.
Va in pensione, inoltre, un medico che ha spesso – in silenzio – teso una mano alle fasce più deboli della popolazione, immigrati in primis, dedicando loro il suo tempo libero, senza alcun tornaconto. Anche in questo, risiede la sua grandezza. Anche per questo, Ischia deve essergli riconoscente. Si dirà: ha fatto il suo lavoro. Ma oggi più che mai, in tempi di superficialità diffusa, il “come” fa assolutamente la differenza: passione e competenza sono due facce della stessa medaglia, vederle convivere va di un professionista un grande professionista.
Così, quella straordinaria foto in cui Carmine è di spalle e s’incammina, con la borsa in mano, quasi salutando i suoi amici/pazienti restituisce oggi il senso di un percorso lungo, la cui portata risiede nell’incondizionata riconoscenza dei tanti che ha curato e dei non pochi che ha salvato, rincuorato, assistito. Costruendo mille e più rapporti di fiducia, umana ancor prima che professionale. E accade che qualcuno, attribuendogli quasi capacità divine, gli scriva con un pizzico di malcelata emozione: “Userò bene il tempo in più che mi hai regalato”. Regalare tempo supplementare alle vite umane, che privilegio.
Di certo ha offerto il suo, Carmine, senza se e senza ma. Sorridendo, visitando, empatizzando. E ora che potrà staccarsi dal flusso dei messaggi Whatsapp (“Internet ci ha rincretiniti, oggi arrivano qui con la diagnosi già fatta, spesso una diagnosi nefasta, e io per scherzare gli do ragione”, mi ha detto una volta), dovremmo provare tutti a lasciarlo libero, magari di fare il nonno. Non sarà così, e questo in fondo lo sa anche lui.