Per il Comune di Casamicciola Terme una vittoria “agrodolce” dinanzi al Consiglio di Stato, che conferma l’ordinanza di demolizione del 2015 per gli abusi nel Convento dei Padri Passionisti, ironia della sorte la struttura dove ora hanno sede gli uffici comunali. Non appare dunque casuale la circostanza che l’Ente non si sia costituito in giudizio…
A proporre appello Padre Antonio Siciliano, in qualità di rappresentante dell’Ente Morale Provincia Dell’Addolorata dei Padri Passionisti, difeso dall’avv. Bruno Molinaro. Chiedendo la riforma della sentenza del Tar del 2020 che già aveva dato ragione al Comune.
Una vicenda, quella dei lavori abusivi realizzati nel complesso conventuale di Via Salvatore Girardi, che era stata anche oggetto di un processo penale conclusosi con la prescrizione.
La sentenza ripercorre i fatti e il contenzioso instauratosi tra l’Ente religioso e il Comune: «A seguito di accertamento del 30 gennaio 2015, con provvedimento n. 2/2015, notificato il 4 maggio 2015, il Comune di Casamicciola Terme ingiungeva a Padre Mario Caccavale la “demolizione e rimessione in pristino dello stato dei luoghi originario” ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Padre Mario Caccavale, in proprio e nella qualità di legale rappresentante dell’Ente Morale Provincia dell’Addolorata dei Padri Passionisti, impugnava il suddetto provvedimento chiedendone l’annullamento».
LA SENTENZA DEL TAR
I giudici di secondo grado richiamano quindi quanto sentenziato dal Tar, ovvero «che il provvedimento dell’Amministrazione comunale era stato adottato in conformità all’art. 31 d.P.R. n. 380/2001 in quanto i lavori in questione dovevano qualificarsi quali “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, meritevoli di sanzione anche in ragione del carattere vincolato dell’area in cui insistono; l’ordinanza di demolizione costituiva un provvedimento repressivo di abusi edilizi e, pertanto, non richiedeva la comunicazione di avvio del procedimento una diffusa motivazione; il provvedimento impugnato doveva ritenersi adeguatamente motivato; la diversità soggettiva tra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario non onerava l’Amministrazione di un peculiare e aggiuntivo onere motivazionale: in particolare per la ragione che gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario, nei cui confronti quindi può essere erogata la misura oggetto del provvedimento impugnato».
LA LICENZA EDILIZIA DEL 1954
Padre Rev. Antonio Siciliano, subentrato a Padre Mario Caccavale, come detto ha appellato senza esito quella sentenza.
Un’unica censura, ma dettagliatamente articolata e analizzata dal collegio della Settima Sezione del Consiglio di Stato.
Per l’appellante il Tar avrebbe errato nel ritenere «che per le opere sanzionate fosse necessario acquisire il permesso di costruire. Tali opere sarebbero state autorizzate con licenza edilizia n. 4792/1954, fatta eccezione per ulteriori interventi di adeguamento funzionale privi di rilevanza urbanistica e paesaggistica.
In relazione ai locali tecnici l’appellante afferma trattarsi di pertinenze rispetto al convitto, assoggettate a SCIA, così come risulta anche dall’accertamento dell’ing. Francesco Rispoli, depositato in atti».
Ancora, l’ordinanza di demolizione sarebbe viziata da difetto di motivazione e proporzione: «Sul punto, il Tar avrebbe omesso di esercitare i poteri istruttori a fronte di una incompletezza dell’istruttoria».
Per Padre Siciliano la sentenza impugnata sarebbe “viziata” alla luce della risalenza nel tempo di quegli abusi e dunque «per aver escluso l’affidamento in ordine alla legittimità delle opere e la non congruità della motivazione del provvedimento a fronte del lungo tempo trascorso dalla data di realizzazione delle medesime: pur condividendo l’orientamento secondo cui il decorso del tempo non sarebbe idoneo a consumare il potere dell’amministrazione di provvedere né a fondare un legittimo affidamento, l’odierno appellante ritiene che la giurisprudenza ha, in più occasioni, dato rilievo al legittimo affidamento. Di conseguenza, l’amministrazione avrebbe dovuto specificare la sussistenza dell’interesse pubblico all’eliminazione dell’opera e al ripristino dello stato dei luoghi, comparandolo con l’interesse oppositivo del privato alla conservazione dell’integrità dell’assetto edilizio.
In ogni caso, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, la sanzione demolitoria non potrebbe dirsi proporzionata atteso il tempo trascorso tra l’intervenuta sanzione e l’epoca in cui fu commesso l’abuso».
LA RESPONSABILITA’ DEGLI ABUSI
Anche la non responsabilità diretta del precedente rappresentante legale dell’Ente Morale è stata ancora ribadita in sede di appello. Sostenendo che «il Tar avrebbe errato nel ritenere infondata la censura relativa alla estraneità di Padre Caccavale rispetto alla realizzazione delle opere sanzione, risalente a molti anni prima del suo insediamento». E in proposito è stata tirata in ballo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sui principi di legalità e di colpevolezza per sostenere «la violazione del divieto di responsabilità per fatto altrui. In altri termini, l’ordine di demolizione di un’opera abusiva, intervenuta a distanza di notevole lasso di tempo a far data dalla realizzazione della stessa, avrebbe il carattere di pena ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, sicché dovrebbe accertarsi l’esistenza di dolo o di colpa dei destinatari della sanzione».
Per ultimo, i giudici di primo grado avrebbero erroneamente «ritenuto non necessaria la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, allorché l’Amministrazione avrebbe dovuto salvaguardare le garanzie partecipative ex art. 7 L. n. 241/1990, non rilevando la natura vincolata per il carattere tecnico-discrezionale del potere esercitato».
E’ stata anche richiesta, in via istruttoria, l’acquisizione di tutti gli atti relativi al procedimento detenuti dal Comune di Casamicciola Terme.
NON C’E’ DIFETTO DI MOTIVAZIONE
Ma dal Consiglio di Stato è arrivata la bocciatura dell’appello, rigettato perché ritenuto infondato.
I giudici rilevano da subito che le questioni sollevate «sono state da tempo chiarite dalla giurisprudenza».
Ricordando che l’abbattimento è atto dovuto: «Il problema relativo alla motivazione che deve recare l’ordinanza di demolizione di opere, quando essa intervenga a lunga distanza di tempo dal momento della realizzazione e le opere da demolire siano abusive in quanto mai assistite da titolo edilizio, è stato definitivamente risolto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 9/2017, la quale ha affermato il principio secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”».
Un concetto che vale anche quando il provvedimento viene adottato dopo un lungo lasso di tempo dalla commissione degli abusi: «Il ricordato precedente si attaglia, senza dubbio, al caso di specie, venendo in considerazione manufatti ab origine abusivi, ovvero realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio. Esso principio si fonda sul presupposto che colui che dia corso ad interventi edilizi senza preoccuparsi di acquisire, preventivamente, il necessario titolo edilizio, non matura un affidamento legittimo – cioè qualificato dall’ordinamento giuridico – circa la possibilità di poter conservare, anche nel lungo periodo, le opere abusivamente realizzate; di conseguenza non v’è ragione per obbligare l’Amministrazione ad effettuare una valutazione comparata tra l’interesse privato e quello pubblico, al ripristino della legalità violata, e a darne conto con specifica motivazione».
LA MANCATA COMUNICAZIONE
Ancora la sentenza della Settima Sezione chiarisce: «Sono anche infondate nel merito le censure afferenti il difetto di motivazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive nonché quella relativa alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento. Il carattere doveroso e vincolato della sanzione edilizia, conseguente alla realizzazione di opere eseguite in assenza o in difformità del titolo edilizio, è stato definitivamente riconosciuto dalla Adunanza Plenaria nella sentenza n. 9/2017, che ne ha fatto discendere l’affermazione secondo cui, in tali casi, l’ordine di demolizione non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso, neppure quando la demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso. Per le medesime ragioni la giurisprudenza consolidata esclude la necessità che l’ordine di demolizione debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento».
Quanto al richiamo a quanto indicato dalla Cedu: «La giurisprudenza ha anche già avuto modo di confrontarsi con il problema relativo alla possibilità di assimilare la sanzione demolitoria edilizia ad una sanzione afflittiva: tale assimilabilità è stata esclusa sul rilievo che la sanzione demolitoria “assolve a un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha una finalità punitiva e ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una “pena” nel senso individuato dalla giurisprudenza della Cedu e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’art. 173 c.p.”».
La sentenza del Tar viene confermata e quell’ordinanza di demolizione adottata dieci anni fa resta efficace.
Una decisione, questa del Consiglio di Stato, sicuramente “imbarazzante” per l’Amministrazione comunale di Casamicciola Terme.