Mi sono rifiutato di vedere il servizio de “Le Iene” sull’AMP Regno di Nettuno, che per molti ha rappresentato un pessimo biglietto da visita per il nostro territorio. Ho evitato non solo per risparmiarmi, con tutta probabilità, di far inacidire il sangue, ma anche perché ho un concetto personalissimo sulla qualità del giornalismo d’indagine e, in particolare, sulle cause che spingono queste trasmissioni a “indagare” su qualcosa e sugli effetti consequenziali della messa in onda di tali servizi.
Si vocifera che Giulio Golia, la “Iena” in questione ed autore del servizio, essendo un appassionato diportista nautico, abbia subito qualche torto nell’ambito delle sue frequenti presenze estive tra le isole del Golfo di Napoli (in questo caso, Ischia e Procida), ponendo in essere tutti i suoi potenti mezzi a disposizione per far pagare adeguatamente all’AMP la sua lesa maestà. Il grande Peppino De Filippo avrebbe detto, come me, “non è vero ma ci credo”, magari rilevando che il servizio della nota trasmissione televisiva abbia rappresentato una vera e propria iattura per Ischia e dintorni. Ma se anche quelle testate in cui, per forza di cose, tanto la credulità popolare quanto il rifugio della disperazione comune rispetto ai vari sistemi distorti della nostra società ha conferito così tanta importanza attraverso audience da favola e segnalazioni da ogni dove, oggi dovessero rivelarsi ostaggio delle reazioni uterine dei loro protagonisti, significherebbe che siamo veramente sull’orlo del baratro anche quanto a comunicazione televisiva.
Quanto all’AMP Regno di Nettuno, è fuor di dubbio che anche la nuova gestione targata Miccio non è riuscita ancora a conferire ad un’istituzione così importante quella capacità di diventare parte integrante del tessuto sociale delle nostre due isole, rimanendo tuttora distinta e distante da tutto e tutti in termini sia partecipativi che divulgativi delle attività -magari anche importanti- che è in grado di svolgere nel corso del proprio esercizio. In altre parole, almeno per ora, non ne faccio un problema di “meglio” o “peggio”, e neppure di “poco” o “tanto” (anche se non escludo, quanto prima, di entrare nel merito), ma credo che aprirsi all’etimologia del “comunicare” (dal latino communis, cioè mettere in comune, condividere) e coinvolgere adeguatamente il territorio sarebbe il minimo.