Per chi non lo sapesse, il cosiddetto cromosoma 21 è quello meno presente in ciascuno di noi. Allorquando vi è una sua copia in più delle due “di serie”, si riscontra nell’individuo la cosiddetta Sindrome di Down, una volta definita mongoloidismo, il cui attributo propriamente derivato è ormai da decenni in disuso e comunque bandito –per fortuna, aggiungo io- dal lessico delle persone perbene o, perlomeno, dotate di un minimo di buon gusto.
La scorsa settimana è ricomparsa nella mia vita una persona oltremodo piacevole, non solo per la sua innegabile bellezza, ma anche per la verve e la simpatia che profonde nel suo ordinario modo di essere. Conobbi Veronica Tranfaglia una decina d’anni fa; non ricordo chi mi suggerì di andare da lei, ma i suoi modi e il suo metodo mi piacquero subito e diventò la mia nutrizionista. Oggi, incontrandola per la necessità di far fronte al mio smodato “aumento di volume”, l’ho ritrovata più in forma e affabile di sempre, ma… con una storia in più da raccontare. La stessa che, chiunque di Voi, amici Lettori, può scoprire nel suo “Maritè non morde” (Aliberti Compagnia Editoriale, ISBN 978-88-93231-442), edito nel 2016: solo centoquarantuno pagine intrise di emozioni, verità, dignità, coraggio e perché no, normalità. Quella che fin troppo spesso riusciamo a far mancare alle nostre storie di tutti i giorni.
L’autrice, già madre di due splendide bambine, Vittoria e Brigida, dà alla luce la sua terzogenità, Maritè e scopre subito, dopo una gravidanza insolitamente travagliata, che la piccola ha la Sindrome di Down. Da quel preciso momento sono tantissimi gli aspetti che ella si ritrova a dover valutare: le prospettive di vita, innanzitutto (quella di Maritè, delle altre due figlie, di suo marito Roberto e, non ultima, la sua), i rischi, le priorità, ma anche i pregiudizi, l’ignoranza, l’ostilità diffusa di chi ti circonda, da combattere strenuamente con le proprie forze e con l’aiuto e la solidarietà, immancabili, di quelle persone che ti amano sul serio e che, per fortuna, si trovano anche oltre le mura domestiche e si rendono utili, amici storici o conoscenti dell’ultim’ora che siano.
“Maritè non morde”, da leggersi in un paio d’ore o giù di lì secondo i ritmi di ciascuno, è un viaggio tenero e affascinante in una realtà familiare in cui l’autrice, autobiograficamente, ci lascia entrare spalancandocene le porte con un linguaggio tenero e forbito al tempo stesso, senza minimamente celare anche aspetti profondissimi della sua intimità di donna, figlia, madre e moglie. E come se non bastasse, ci mette in condizioni di comprendere non solo quanto sia possibile che la nostra vita possa totalmente cambiare direzione da un momento all’altro, quando mai te l’aspetti, senza aver avuto neppure la possibilità di scegliere. Della serie: combattere e basta, stravolgendo le priorità e in barba a un contesto sociale ancora troppo retrogrado per comprendere la normalità di queste creature. “Forse (Maritè –ndr) è già normale. Sono io, sono gli altri, a vederla diversa”, scrive l’autrice riportando una delle sue riflessioni più frequenti. Proprio così: sono gli altri a ritenere diversi i “down”. Ma chi li vive, direttamente o indirettamente, sa bene che attribuire loro semplicisticamente una sorta di diversità rappresenti un pregiudizio bello e buono. Perché loro, credetemi, andrebbero considerati semplicemente SPECIALI.
Ed ecco che, con la nascita di Maritè, la vita di Veronica e della sua famiglia diventa #maritecentrica o, come recita un’altra splendida espressione della lei-scrittrice, “il libro che non avrei mai scritto”. Maritè mi viene descritta come una bambina che, decisamente bellissima, è il faro di casa o, come rivelò la piccola Vittoria a mamma Veronica, “la figlia che un giorno vorrei avere”. Così come Ischia Beauty, l’azienda cosmetica di mia suocera e mia moglie, è diventata #nannicentrica da quando Uschi decise, una decina d’anni fa, di integrare nel suo organico Giovanni Barbieri, cugino di primo grado di Catrin, anche lui affetto dalla sindrome di Down. Nanni (lo chiamiamo tutti così da sempre) è più di una mascotte: viene ogni giorno a lavorare part time con un entusiasmo senza pari, sempre di buon umore (a meno che il Napoli non abbia perso), si dà da fare in ogni compito gli venga assegnato, rivelandosi sistematicamente utilissimo; ma più di ogni altra cosa, il suo sorriso e il suo amore verso la dimensione trovata con quell’impegno quotidiano sono oltremodo contagiosi.
Così come Nanni ha imparato a volare dal torpore di un destino piatto che, solitamente, la società riserva a questi nostri fratelli meno fortunati nella salute, anche mamma Veronica, nel suo libro, ci ricorda la sua ispirazione tratta da una poesia di Erma Bombeck: “Avrei insegnato a Maritè a volare” è il proposito pregno di amore che ci rivela, pur consapevole insieme a suo marito che ella, probabilmente, “sarà una bambina per sempre”. Ma è proprio la sua visione di donna open mind che trasmette un messaggio di certezza, più che speranza, nel proporsi di “giudicare meno, pensare di più. Alla vita propria, non a quella degli altri”, lasciandoci meditare sul fatto che oltre il dato-choc del 96% di aborti derivanti da Sindrome di Down diagnosticata in fase prenatale, esiste la speranza di vivere un giorno anche in Italia, al pari di altri paesi molto più avanti di noi, la consapevolezza e la gioia di essere circondati da queste creature speciali, che più di altre sanno adeguatamente ricambiare, decuplicandolo, l’amore ricevuto.
Vi invito, pertanto, ad acquistare questo splendido libro che trasuda amore da ogni singolo paragrafo. Costa solo 16 euro e il ricavato è interamente devoluto dall’autrice alla ricerca. E come cantava Roberto Vecchioni, “forse non lo sai, ma pure questo è amore”.