domenica, Febbraio 2, 2025

Demolizione a Serrara, quanti errori dell’Utc e del Tar… ci pensa il Consiglio di Stato a fare giustizia

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L’ordinanza non poteva essere adottata perché era pendente l’istanza di condono. Inoltre l’accertamento dell’Ufficio tecnico era stato troppo superficiale. Al Comune è stato ordinato di procedere rapidamente al riesame della domanda di sanatoria. I giudici di primo grado avevano sbagliato i calcoli, ritenendo il ricorso tardivo. Un’altra demolizione che andrebbe sottratta dalla narrazione sbagliata degli invasati del verde in barca a vela e affini

Ugo De Rosa | Una ordinanza di demolizione adottata dal Comune di Serrara Fontana nel 2013 e palesemente viziata è stata definitivamente annullata dal Consiglio di Stato. Così come la sentenza del Tar che aveva rigettato il ricorso della interessata, risalente al 2018. Un contenzioso esaminato dai giudici di secondo grado, come riportato in sentenza, nella «udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato». Un arretrato formatosi non solo per la cronica lentezza della giustizia italiana, ma certamente anche a causa della pandemia.
Adesso comunque si è giunti alla conclusione che boccia l’operato del Comune, nemmeno costituitosi in giudizio, e dei colleghi del Tribunale amministrativo regionale.7Il ricorso contro l’ordinanza di demolizione dell’11 gennaio 2013 era stato dichiarato irricevibile dal Tar Campania per tardività, in quanto non sarebbe stato notificato entro sessantesimo giorno dalla notifica del provvedimento.
Nell’appello invece è stato evidenziato che «il sessantesimo giorno dalla notifica dell’ingiunzione di demolizione si compiva il 1 aprile 2013, che era la festività del Lunedì in Albis, e pertanto il termine per la notificazione del ricorso era prorogato a martedì 2 aprile 2013. La sentenza con cui è stato dichiarato irricevibile il ricorso contesta, però, la tardività del ricorso in quanto notificato proprio il 2 aprile 2013».
Un errore di calcolo dei giudici di primo grado, che sono stati appunto “bocciati” dal collegio del Consiglio di Stato. Che evidenzia a chiare lettere: «Secondo gli atti acquisiti al giudizio il ricorso è stato dunque ritualmente notificato nell’ultimo giorno utile e non è tardivo, come invece postulato dal giudice di primo grado. L’appello risulta pertanto fondato, dovendosi di conseguenza riformare la sentenza impugnata».

bA questo punto il collegio è passato ad esaminare il merito del ricorso. L’ordinanza impugnata si riferiva indistintamente a due manufatti diversi e due distinte situazioni, così descritti: «Quanto al primo fabbricato, l’odierna appellante in data 22 marzo 2004 aveva presentato domanda di condono ai sensi della Legge n. 326/2003, corredata dalle ricevute del pagamento degli importi della oblazione e degli oneri concessori, dalla dichiarazione ai sensi dell’art. 4 della Legge 15/1968, da documentazione fotografica e da perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere. Il comune con atto interlocutorio del 19 dicembre 2006 aveva chiesto l’integrazione della pratica mediante attestazione del pagamento della oblazione e degli oneri concessori (ricevute peraltro già allegate alla domanda di condono), di documenti comprovanti l’avvenuta esecuzione delle opere abusive entro il 31 marzo 2003 e di certificazione attestante l’idoneità statica delle stesse opere, e l’interessata vi aveva provveduto mediante deposito dei documenti richiesti. Il procedimento per il condono, dichiara l’appellante senza essere smentito dal Comune, era ed è tuttora pendente».

A parte la richiesta di attestare un pagamento già provato, è evidente che l’Utc è incorso nel solito marchiano errore di voler demolire pur in presenza di una istanza di condono ancora pendente. Ed infatti nella sentenza si legge: «A giudizio del Collegio le predette censure sono fondate. In particolare risulta fondata, in assenza di contrarie memorie del Comune, la censura di violazione dell’art. 38 della L. 47/1985, essendo pacifico che, ai sensi delle predette norme, in pendenza della domanda di sanatoria è preclusa l’adozione di provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio, atteso che nell’ipotesi di diniego della domanda di sanatoria l’Amministrazione dovrà adottare una nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione».

SEQUESTRO RISALENTE AL 1998
Per quanto riguarda il secondo manufatto, nel ricorso si evidenziava trattarsi «di un comodo rurale cui non si addice l’aggettivo “grezzo” che secondo l’accezione corrente indica uno stadio provvisorio della costruzione, in attesa di ultimazione. Detto manufatto, invece, non necessitava di altre opere per la sua destinazione, già in atto, di pollaio. Esso risaliva ad epoca antecedente al 1 settembre 1967, quando ai sensi della legge 1150/1942 la licenza edilizia era richiesta soltanto per le edificazioni nei centri abitati. Tale non era, è non è tuttora, la zona in cui ricade il manufatto in discorso, adeguatamente classificata dal PRG come zona agricola. Anche sotto tale profilo l’ordinanza impugnata in primo grado sarebbe pertanto stata illegittima». Una circostanza peraltro non smentita dal Comune.
Dal Consiglio di Stato dunque arrivano altre “bacchettate” a chi ha adottato quella ordinanza: «Ugualmente fondata appare la censura di difetto di motivazione, di disparità di trattamento e di violazione del principio di buona amministrazione, in relazione all’accertamento della data di costruzione dei descritti manufatti.

Il provvedimento impugnato era stato, infatti, adottato in base all’accertamento dell’ufficio tecnico comunale in data 23 febbraio 2012, che faceva riferimento allo stato dei luoghi accertato con verbale di sequestro dell’11 giugno 1998, di ben 14 anni prima. Dal verbale del secondo accertamento è però risultato, rispetto a quanto accertato in precedenza, solo l’abbozzo dell’intonaco esterno e l’installazione di nuovi infissi, evidenziandosi l’irragionevolezza della determinazione del Comune che, sulla base di tali scarni dati, ne aveva irragionevolmente desunto che l’immobile non fosse stato ultimato alla data del 31 marzo 2003», come previsto dalla legge del secondo condono.
E dunque «l’appello risulta fondato sia sul piano procedurale sia su quello sostanziale e deve essere accolto».
Tutto annullato, dunque. E al Comune di Serrara Fontana viene ordinato «di procedere senza indugio al riesame della domanda di condono, con esito favorevole ovvero sfavorevole per l’appellante, procedendo nei sensi di cui in motivazione». E condannandolo al pagamento delle spese di giudizio nella misura di oltre 4.000 euro. Un esito prevedibile, quasi scontato…

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