giovedì, Settembre 19, 2024

Don Carlo Candido celebra messa nel carcere di Poggioreale: “La condanna dell’assoluzione”

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Rossella Novella, ufficio comunicazioni sociali Diocesi di Ischia | Mettici un manipolo di irriducibili, mettici l’idea di una estemporanea parrocchia itinerante, mettici una domenica 1 ottobre, e mettici una traversata a prima mattina verso la terraferma e la miscela è quasi pronta per l’uso. Quale che sia l’uso, e quale che sia l’utilizzatore. Varcare la soglia di ingresso del carcere di Poggioreale non era nei sogni reconditi di nessuno di noi, il pensiero di animarne la Messa che la domenica viene celebrata per i detenuti, tuttavia, rendeva la cosa più digeribile.

Non si trattava certo di una gita fuori porta, nemmeno di un pic-nic; quel che non avevamo preventivato era che diventasse un viaggio anche interiore, che passo, dopo passo, sguardo dopo sguardo, silenzi dopo silenzi, che avrebbe condotto noi e il sacerdote verso dimensioni imperscrutabili. E men che meno avremmo mai pensato che a viaggiare non saremmo stati gli unici. L’intento era di portare una ventata di freschezza, accompagnati da un sacerdote che con la stessa “presunzione” aveva in animo di portare qualche briciola di una Parola spezzata, troppo spesso in fretta ed ancor più spesso poco ascoltata.
La dentro sono tutti ladri, ladri di quei pochi spiccioli di certezza che avevamo in tasca. E siamo usciti più miseri di come siamo entrati e più poveri di quanto pensavamo di essere.
Avevamo l’arroganza di portare qualcosa. Ce ne siamo andati privi di tutto quello che non serve e carichi di incertezze e dubbi. Uno tra tutti: ma non è che abbiamo sbagliato la prospettiva?
L’ingresso del carcere affaccia in una dimensione parallela alla quotidianità, che è fatta di strada, di binari del tram che stridono, gente che urla; la porta, blindata sia da un lato che dall’altro, affaccia su silenzi e labirinti di corridoi, dove i sordi chiavistelli, metalli che si aprono e chiudono, fanno da eco. L’aria è spettrale e le guardie, pure.
In questo mondo altro, la rassegnazione diventa normalità e attraversa quei corridoi da sempre, lambisce quei muri sporchi da e di una vita e qui i controlli, i metal detector, gli scanner e le divise con le mostrine non più lucide, le facce dure da mascelle d’ordinanza, che se non ce l’hai, non superi il concorso, sono parte dell’arredamento della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia”, altrimenti detta “Poggioreale”.

Entriamo con l’entusiasmo degli incoscienti: al primo sbarramento ci si è spento in faccia mezzo sorriso. “Chiavi, zaino, marsupio, cellulare, posate tutto qua”. La prima freddata, aspettata, si intende, ma un conto è saperlo e un conto è viverlo davvero, sui vestiti, nelle tasche. Che attraversano il varco vuote.
L’abbiamo immaginato come un film al portatile. Lo abbiamo vissuto come in un multisala, in 3D, restando in piedi, zitti e muti e quasi per uniformarci all’ambiente, anche un po’ sugli attenti. E a piedi uniti siamo rimasti fino alla fine, con l’imbarazzo di avere la possibilità di rimetterlo fuori quel piede, a differenza di quelli che, occhi bassi, sono rassegnati ad averceli tutti e due i piedi dentro. E pure le scarpe. Ed anche il cuore. L’anima no, sono convinti di non averla più un’anima. Loro.
Nella cappella, il prete ischitano, con addosso la sola cosa che è passata al controllo, il camice bianco, ha iniziato con “Buongiorno a tutti, io vengo dall’isola più bella del mondo, generalmente dico messa per le persone per bene, voi siete i delinquenti e noi le persone per bene, giusto? nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Se prima c’era il freddo ora calava addirittura il gelo. Noi, i buoni, ci guardavamo circospetti, muovendoci il meno possibile per non irritare la tensione che già tesseva la sua ragnatela. Nelle orecchie un suono di marranzano dai corridoi o forse dai banchi, (o forse era solo un picco pressorio che creava allucinazioni acustiche, chissà) …e già immaginavamo i titoli sui giornali “Rivolta nel carcere per la provocazione di un prete, ancora disperse le anime”.

Ma loro, i cattivi, non ci pensavano proprio, con le anime ricomposte alla meno peggio, come quando si ricompone una salma, vestiti addosso come se stessero sulle stampelle di panni grondanti ad asciugare, perché non puoi stirarli. Rassegnati e spenti, sguardi vitrei, capo chinato a guardare per terra e ad aspettare la prossima pala di giudizio tirata addosso come fa la cazzuola quando schiaffa la calce sul muro da rifare.
I riti di introduzione, la liturgia della Parola, le canzoni, tutto filava liscio e a breve saremmo sgattaiolati fuori e chi si è visto si è visto, la nostra buona azione l’avevamo fatta e arrivederci e grazie. Quel marranzano, altrimenti detto scacciapensieri, che echeggia nelle campagne siciliane e che l’immaginario cinematografico associa al preludio di un’azione mafiosa, era ancora lì, flebile che si sentisse. E noi stavamo per cadere nell’imboscata. Nell’agguato di Dio, come direbbe don Marco Pozza, uno che di carcere di massima sicurezza se ne intende.
Dalla prima lettura avremmo dovuto capirlo dove Lui sarebbe andato a parare, ma noi eravamo i buoni, mica immaginavamo che tutto quel ghiaccio in faccia era anche per noi?

L’omelia incentrata sulla parabola dei due figli, poi, non solo non ci è venuta in soccorso ma ha scardinato gli ormeggi e ci ha fatto del tutto naufragare, noi e loro, buoni e cattivi, su un’unica zattera di fortuna fatta di inconsistenze e si salvi chi può. Già, ma chi si salva? I buoni o i cattivi?
“Cu ‘nu sí te ‘mpicce e cu ‘nu no te spicce” Lo conoscete questo detto? A occhio e croce non mi sembrate del Nord” Eccolo qui, il prete di strada, quello che evangelizza pure sul traghetto o fuori a una discoteca, eccolo che alita nel mirino del fucile senza mai distogliere lo sguardo dalla preda, per lucidarlo, che invece di gettare la rete e pescare le anime, le aggancia col fucile subacqueo, tipo cecchino, premendo il grilletto sull’omelia, subito dopo la parabola dei due figli e del padre. Un figlio dice no ma poi si pente, l’altro dice sì ma invece mente. Gli abbiamo letto il labiale mentre mormoravano –stu paricchian è pazz-.
“Avete fatto degli errori ma vi do una notizia: NON SIETE LA SOMMA DEI VOSTRI ERRORI”.
Altro giro di surf aggrappati a un’onda che ci ha travolti tutti ancor prima di montare sulla tavola. Noi, già scecherati, stavamo infilandoci nel frullatore con l’interruttore già acceso.
Le schiene raddrizzate all’improvviso, le panche diventate più strette, i menti sollevati di almeno 5 centimetri e gli occhi si aperti, le antenne drizzate. Iniziava un altro giro di giostra. È luogo comune pensare che chi sta in galera è feccia, scarto di umanità, merita di marcire in una cella di cui devono buttare le chiavi e tutto il resto degli improperi che scarichiamo addosso al nemico, al diverso, all’altro da noi.
Varcata la soglia che separa i mondi, si incrociano occhi, anime, solitudini che chiedono sommessamente, sapendo di non meritarlo, di incontrare, parlare, ristorarsi di quel nutrimento che il mondo non ha dato e che anche dopo, se ci sarà un dopo, sarà difficile che elargisca. Un nutrimento che loro, tutto sommato e ormai, nemmeno chiedono più. Per la legge sono stati già condannati, la sentenza, è poca roba rispetto alla loro di condanna, a quella che senza possibilità di appello, si sono già auto-inflitti.

Noi ci siamo arrogati la pretesa di portare Cristo in galera e invece Lui era già lì che ci aspettava proprio lì dove pensavamo non ci fosse, in mezzo a loro. Ancora il prete: “La buona notizia è che Dio ci ama così come siamo e per Lui siamo talmente preziosi che ha versato il sangue per ciascuno di noi, tutti, nessuno escluso”. Questa ha funzionato poco, più di qualche sopracciglio non si è alzato nulla. Questa è la prima di due messe, magari sta facendo le prove, “Solitamente io faccio le omelie alle brave persone” Eccolo di nuovo che incalza, caso mai quella di prima fosse sfuggita. Stavolta lo strumento di Dio, il sacerdote, l’ha sparata grossa. “Ed io che sono prete, che indosso il camice bianco, devo mantenere una parvenza da persona per bene, sennò che figura ci faccio? E il coro, gli accompagnatori, loro sì che sono persone per bene, giusto? Mica come voi delinquenti.” Abbiamo tremato e non è stato per i Campi Flegrei. “Cu ‘nu sí te ‘mpicce e cu ‘nu no te spicce” lo ripete e la spiega “La parola del Vangelo di oggi parla dei due figli, uno accondiscendente, l’altro che manifesta la sua libertà di disobbedire. Le parabole hanno una superficie, le raccontiamo, le meditiamo e spesso lasciamo inalterato il loro doppio fondo, l’oltre. Chi dei due figli fa la volontà del Padre? Chi dei due manifesta la sua libertà di dissentire? E Noi come figli, viviamo per assecondare le aspettative o per essere liberi di esprimere la nostra vera natura? Esiste un Dio che ci ama così tanto che prima ancora dell’obbedienza ci lascia la libertà di disobbedire.”
Riprenderà mai fiato quell’omino sull’altare, consentendo anche a noi di smettere di stare in apnea. Niente, saliamo in superficie, il tempo di prendere una boccata d’aria e ritorniamo sott’acqua a vedere di schivare l’arpione che sembra puntare pure su di noi.

“E così voi avete disobbedito, è vero, esprimendo, come avete imparato da chi ve lo ha insegnato, la libertà di decidere. Giusto o sbagliato che sia tutti noi impariamo quel che ci viene insegnato. Il mondo ci giudica, ci condanna, ci assolve, UNO solo ci aspetta e ci ama incondizionatamente, col niente che abbiamo.” Alle volte un NO ti leva dagli impicci, un SI’, ti inchioda. E qualche volta essere assolti da tutti i peccati si trasforma in una vera condanna, a una nuova vita, a una nuova prospettiva, a un cambio di rotta, di corrente.
Entrando qui, impari quanto vale la libertà e che la normalità spesso è data per scontata. Molti di loro sognano una mezza giornata di noia, di panciolle, di divano, in luogo di ritmi scanditi, l’ora d’aria, di dormire, di svegliarsi, di mangiare. Loro i cattivi e noi, i buoni, solo perché hanno fatto quello che noi, qualche volta sogniamo di fare, travestendo la nostra ipocrisia.
“Ora voi siete liberi”, Ok – devono aver pensato – forse si droga – “liberi perché non avete nulla da perdere, state già in galera, da cosa dovete nascondervi ormai? Siete senza filtri e senza maschere, senza bisogno di apparire e di non deludere nessuno. Avete perso già tutto e deluso già tutti. In questo vuoto, in questa nudità LUI ci aspetta e tu, tu, tu ed anche tu, sei a un passo da, a un passo per.” Noi no, abbiamo una reputazione ancora da difendere, prima che ci si polverizzi tra le dita.
Quando ha mirato, puntando il dito contro ciascuno di loro, abbiamo pensato che forse è un bene che i preti non abbiano il porto d’armi. Non mancherebbero un colpo e hanno una mira infallibile.
Vista da questa silenziosa prospettiva la loro dimensione assume un carattere diverso, qualcuno con gli occhi mima un “apperò!”. Lui imperterrito affonda la lancia che però, trapassa anche noi.

“I Pubblicani e le prostitute passeranno avanti perché accolgono Cristo, non difendono la reputazione che hanno perso, come la vostra. Oggi, non avete nessuna maschera da mantenere. È per questa nudità che passeranno avanti a chi come me, come loro, (guardando noi che fino a dieci minuti fa eravamo i buoni) si ritiene una persona per bene. Avanti, a chi pensa di non commettere mai errori e che, per questo, non potrebbe essere più distante di così da Dio. Con la parola del Vangelo di oggi vi consegno anche la memoria del buon ladrone. La traduzione è sbagliata, non era buono e nemmeno solo ladrone. Era un criminale, assassino, delinquente incallito, mai battezzato, mai avvicinato ai Sacramenti, eppure è l’unico, perché ce lo dice proprio Gesù, che è andato in Paradiso, da Santo. Era peggio di voi, e il Signore dalla Croce, sentendo il suo ravvedimento disse-oggi sarai con me nel Regno dei Cieli-. Quel criminale, rimettendo a Lui tutti i suoi peccati, si è rubato pure il Paradiso”.
Risate liberatorie e applausi di massa hanno allentato la tensione e annientato i pregiudizi. Stiamo sulla stessa barca in mezzo alla tempesta della vita; più leggeri diventiamo e più possibilità ci sono di salvezza. Quando don Carlo, strumento di un Dio che sorprende sempre, ha deciso improvvisamente di far rinnovare le promesse battesimali, ha chiesto ai detenuti di voltarsi verso la porta. D’emblée. Tutti basiti.

Non voleva metterli in castigo, faccia al muro. Le rinunce al peccato, alle seduzioni del male, a satana, origine e causa di ogni peccato, lo strumento di Dio ha voluto che fossero rivolte all’esterno, al mondo fuori, e loro, i detenuti, dovevano proprio esprimerla questa rinuncia, guardando alla porta, indirizzando corpo, mente, cuore a quel NO. Nel dubbio, ci siamo voltati pure noi verso quella porta, sul mondo fuori, non si può mai sapere.
Poi li ha fatti girare verso il Crocifisso, di legno, altezza uomo, visibile a tutti. Il “faccia a faccia” con Lui, che si è fatto carne e uomo come noi, ha iniziato la professione di fede. “Credo in un solo Dio” e lo hanno guardato negli occhi, finalmente, quel Dio, che più vicino non avrebbe potuto essere. E noi lì nel tiro incrociato tra loro e Lui a cercare di entrare almeno di sguincio in quel fuoco incrociato di amore e di occhi negli occhi.
Un canto che avevamo preparato “Io sono qui” dei Nuovi Orizzonti diceva “Guardami, son io, non temere, spezzerò per te tutte le catene, tornerai a volare, tornerai da me, Io sono qui e non ti lascio mai”.

Volevamo, con questo canto, offrire uno spazio a cui pensare di sera. Loro avevano pronta già la risposta e hanno rilanciato con un Cristo vivente che parla a loro ma anche a noi con la “Ballata del perdono”, “Guardando negli occhi tutta quella gente, diventava buono pure o’ malamente”, “affianco sulla croce, condannato insieme a me, si sentì una voce, non ti scordar di me, mi girai e con un sorriso gli dissi oggi starai con me in paradiso”. Gesù che parla, chiede, risponde. Anche in una chitarra scordata, in un gruppo di voci stonate e mani che battono il ritmo scoordinato dei loro pensieri.
Gesù che aspetta. Loro, noi, il prete, proprio lì dove pensavamo esserci l’inferno, nudo, infreddolito, in penombra. In quel coacervo di varie umanità aspettava noi per smascherarci delle nostre ipocrite certezze, loro per restituire autenticità e preziosità dimenticate. Ognuno di noi è prigioniero, detenuto, incatenato. Solo che loro ne sono la prova, noi quella prova, la nascondiamo dentro a tutti gli alibi che ci creiamo.

Sono quelli a cui il Signore piace giocare a rialzo: quando perdi tutto, qualunque cosa arriva è un dono. Dopo l’omelia pensavamo che il selettore a raffica del mitragliatore sull’altare, avesse esaurito il caricatore di colpi bassi. L’aneddoto della Santa del giorno, Teresa di Lisieux li ha definitivamente stesi, loro, e pure a noi, per la straordinaria coincidenza.
Un detenuto era stato condannato a morte, – dice il prete, – Teresa ne ebbe notizia e pregò incessantemente, con fervore, per il suo ravvedimento e la sua anima. Qualche giorno dopo da un giornale, “La Croix” lesse del condannato, Pranzini, “Pranzini non si era confessato, era salito sul patibolo e stava per passare la testa nel lugubre foro, quando a un tratto, colto da un’ispirazione improvvisa, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presentava e bacia per tre volte le piaghe sacre… in Cielo ci sarà più gioia per un solo peccatore che fa penitenza che per 99 giusti che non hanno bisogno di penitenza!”
“Nella giornata dedicata alla Santa delle rose volevo portarvi una rosa ciascuno, come sempre faccio a Ischia.” “Per motivi di sicurezza non mi è stato permesso.” Uno di loro, ha rotto il silenzio “nessuno mai ha avuto questa delicatezza, don Carlo, a noi basta che l’abbiate pensato ed è come se oggi le rose fossero arrivate”.
Gli addii non piacciono a nessuno e già la nostalgia aleggiava nell’aria, la Messa stava per terminare e negli occhi di chi forse per la prima volta non avrebbe voluto terminasse mai, c’era la malinconia. “non perdete la speranza, non lasciatevi sedurre dalla tentazione di sentirvi dei falliti e che vi fa credere che non ce la farete mai, tutti nasciamo originali, qualcuno – come diceva il Beato Acutis – muore fotocopia. Restate originali. La speranza è una virtù teologale, un dono di Dio. La virtù del demonio, invece è la disperazione: non accettate mai questo dono”.

Applausi scroscianti, in tutti e due i gruppi, le lacrime copiose, gli occhi aperti e accesi, hanno calamitato il sacerdote che ad uno ad uno, fermi e composti nei banchi, li ha salutati, chi con una stretta di mano, chi con un abbraccio, chi con uno sfogo in un orecchio, chi depositando sulla sua spalla tutte le lacrime mai piante fino a quel momento.
Tsunami dello Spirito, ribaltamento di coordinate, dimensioni e livelli che in quei doppifondi delle parabole, non sai mai a che profondità puoi arrivare. Tra noi era calata la coltre del silenzio. Loro volevano condividere, testimoniare, raccontare. La metà di quel sorriso, smorzato all’ingresso, ci è stato riconsegnato da un detenuto: “don Cà, quando è vento il Papa a visitare il carcere ho pensato meno male che ero detenuto, sennò quello veniva a Napoli e io non lo vedevo.”
Sarebbe bello se affiancata alla detenzione ci fosse anche la redenzione. Sarebbe bello imparare a non sprecare il dono dell’autenticità. A partire da noi, che siamo fuori o non del tutto dentro. O non ancora.

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