mercoledì, Dicembre 25, 2024

Don Giuseppe Nicolella: “Speranza tra guerra e covid per costruire e conservare la pace”

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Non esistono tempi facili e tempi difficili, esiste il tempo nel quale si vive e che presenta momenti brutti e momenti belli, momenti di pace e momenti in cui la pace viene messa in discussione. La pandemia ha fatto venire fuori ciò che veramente siamo.

Gaetano Di Meglio | Tra guerra e pandemia un po’ di Diocesi e il dolce ricordo di Don Giovì. Con Don Giuseppe Nicolella, analizziamo i tempi che viviamo. Un percorso tra storia, sprazzi di fede e molta realtà.

Parroco, viviamo giorni difficili da comprendere. Un tempo impegnativo.
Non esistono tempi facili e tempi difficili, esiste il tempo nel quale si vive e che presenta momenti brutti e momenti belli, momenti di pace e momenti in cui la pace viene messa in discussione. Paradossalmente questa chiacchierata la stiamo facendo il 16 marzo, giorno in cui cade l’anniversario della strage della scorta e del sequestro Moro. Anche quelli non erano tempi facili o migliori di questi. Fatta questa considerazione, piuttosto, dovremmo dirci come affrontare queste cose. Stiamo venendo fuori dalla pandemia e adesso c’è questa guerra in Ucraina. Come leggere tutto questo? Come prendere tutte le informazioni che ci arrivano? Sono tutte attendibili? Sono notizie di parte? Tutto questo ci aiuta ad affrontare lucidamente quello che si vive? Forse no. Forse dobbiamo dire che c’è una quantità tale di informazioni che la nostra testa non è più capace di discernere tra quelle che sono vere o false, quelle che sono effettivamente utili e sulle quali ragionare e quelle che, invece, possono essere accantonate.

Ho l’impressione – continua Nicolella – che la guerra abbia messo da parte la pandemia. I nostri nervi sono messi alla prova e noi ce ne accorgiamo perché sono le categorie più deboli a risentirne, anche psicologicamente. Penso ai bambini con i quali, in parrocchia, si ha contatto e quindi c’è un po’ il polso della situazione, ma anche alle persone più anziane che sono particolarmente sensibili, soprattutto davanti alle immagini che ci stanno arrivando dall’Ucraina. Il consiglio più semplice e quello più efficace è quello di mantenere i nervi saldi, perché c’è una guerra che sta alle porte. Ad Ischia stiamo accogliendo le persone che vengono da quella nazione perché qui avevano parenti e cerchiamo di fare quello che è possibile nelle nostre forze e nella coscienza, sapendo che più di questa umana vicinanza e di questa solidarietà a noi comuni mortali non è dato. Ci sarebbe bisogno di interventi seri e sistematici, perché le parti si incontrino e si ponga fine a questa violenza. Perché ci sia il cessate il fuoco, poi dopo si può ragionare su tutto, ma adesso le armi stanno causando veramente distruzione e morte, davanti alle quali non si può rimanere assolutamente indifferenti”.

Non è che abbiamo dato per scontato il concetto della pace?
“Siamo gente dalla memoria corta. Abbiamo un grande difetto: quando abbiamo una cosa preziosa tra le mani la disprezziamo. L’Europa aveva conosciuto anni di assenza di guerra dal ’45 fino alla guerra in Jugoslavia, però, nonostante la Jugoslavia stesse proprio di fronte l’Italia, dobbiamo dire che quella guerra non l’abbiamo vissuta molto. Ci sembrava una questione interna nell’ex Stato Comunista della Jugoslavia. Non ci abbiamo dato troppo peso e non ci siamo resi conto che il nostro Vecchio Continente sentiva nuovamente il rumore e il fragore delle armi. Già quello doveva essere un segnale. Noi, almeno la mia generazione, abbiamo vissuto le guerre dell’Iraq e anche lì abbiamo fatto come davanti ai film dei cowboy, abbiamo fatto il tifo per i cowboy contro gli indiani, senza riflettere più di tanto e non abbiamo considerato che il dono della pace di cui avevamo goduto, almeno in Europa, fosse veramente delicato. Ora ci stiamo rendendo conto di quanto lo sia. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare a livello diplomatico? Ci siamo preoccupati del metano e del petrolio? Dobbiamo lavorare perché ritorni la pace lì dove c’è un conflitto. Oltre quello tra Russia e Ucraina, ci sono tanti altri conflitti, pensiamo all’Africa, ma a noi non interessano, però anche quella gente ha diritto alla pace.
Quando Giovanni XXIII scriveva “La pace in terris” dava delle indicazioni affinché la pace potesse regnare. E sono parole scritte 60 anni fa. Parole attuali. Giovanni XIII diceva, “Noi siamo appena usciti da un conflitto mondiale e ora che cosa facciamo?” A quelle parole hanno fatto eco quelle di Giovanni Paolo II, inascoltate per il conflitto in Iraq, e oggi il Papa sta ribadendo le stesse cose. Però non possiamo arrivare sempre a parlare di pace solo quando c’è una guerra in atto. Dovremmo costruirla e custodirla sempre.

Quale è l’esperienza da parroco degli ultimi 3 anni?
“Noi parroci abbiamo avuto a che fare con una pandemia inimmaginata. Nessuno avrebbe mai pensato di vivere una pandemia con tutte le sue conseguenze. A noi è stato chiesto un po’ di tutto: nel primo lockdown la richiesta più impellente era quella di sostenere le famiglie in crisi economica, perché mentre qualcuno è stato bene durante il primo lockdown e si è riposato, altri, invece hanno sofferto perché, non avendo magari lo stipendio, ma vivendo a giornate di lavoro o i commercianti con i negozi chiusi, hanno avuto difficoltà. Abbiamo sostenuto nei bisogni materiali queste persone e abbiamo anche assaggiato, forse, l’illusione collettiva che il tutto si potesse risolvere in poco tempo. Quando poi ci si è resi conto che, al di là del primo blocco, si sarebbe dovuto convivere con la malattia, allora le richieste sono state di altro genere ed è venuta fuori anche la domanda “Perché?”, “Perché succede tutto questo?”, “Perché il Signore lo permette”. La parola del Papa a piazza San Pietro, il famoso 27 Marzo, ha aiutato anche noi parroci “più grave della pandemia, c’è solo il pericolo di sprecarla” e allora anche noi preti abbiamo riscoperto il senso della nostra missione, ovvero, aiutare le persone a guardare il mondo, ma mettendoci dalla parte di Dio. Abbiamo avuto il compito di accompagnare le persone in un tempo che non sapevamo quanto potesse essere lungo per vivere al meglio anche le difficoltà: le persone che venivano contagiate, i familiari. Abbiamo avuto anche i morti per il virus è vero, magari perché erano persone già dalla salute cagionevole con altri problemi, ma intanto un morto è sempre un morto.
E poi ci sono state tutte quelle restrizioni che, a lungo andare, hanno esasperato le persone. Quanti anziani sono stati ricoverati in ospedale e hanno avvertito il senso dell’abbandono quando i familiari non li avevano abbandonati? Ma non potevano entrare in ospedale. Devo dire la verità, nel nostro ospedale di Lacco Ameno, grazie alla generosità del personale siamo riusciti a stare vicini contattando i medici o gli infermieri per una videochiamata. Era un conforto e un sollievo in attesa, poi, ecco, che tornassero quanto prima casa. Ma penso anche alle persone anziane sole nelle case di riposo, come a don Orione. E altri anziani che, ad esempio, non riuscivano a capire perché non ricevessero più visite dai vicini. E ne hanno sofferto a livello psicologico. È stata una prova! Un’altra situazione davanti alla quale ci siamo imbattuti, anche noi sacerdoti, è che la pandemia, dopo averci fatto sperimentare anche la generosità di tanti, c’è stata una sorta di vittoria dell’egoismo “qua non sappiamo quanto dura e allora ognuno deve pensare per sé”. Effettivamente è stato il risvolto della medaglia. Per quanto ci sia stata generosità nel primo periodo, poi, dopo, invece, ci siamo abituati a questo stato di cose, per cui “si salvi chi può” e quindi ognuno deve pensare a sé. Tra l’altro – sottolinea Nicolella -, abbiamo dovuto far fronte all’allontanamento delle persone dalla pratica religiosa e dalla frequenza in chiesa. Molti per paura, altri per timore per la salute e, solo ora, diciamo si sta riscoprendo una nuova frequenza. Forse qualcuno ha preso la palla al balzo, anche se le persone che non venivano in chiesa per paura del contagio, le si vedeva ovunque. Vabbè, ma d’altro canto la fede non è un’imposizione, ma una scelta. La pandemia ha fatto venire fuori ciò che veramente siamo”.

In questi due anni abbiamo vissuto tanto e, come Diocesi, dobbiamo anche aggiungere che ci sono stati sia il saluto di Lagnese, sia l’arrivo del nuovo Vescovo Pascarella.
“Ovviamente tutto questo esula dal tema guerra e pandemia, però ecco, dobbiamo dire che le cose si intrecciano e non viviamo in compartimenti stagni. La nostra Diocesi ha vissuto anni anche turbolenti. Ci siamo interrogati su “che fine faremo?” Questa è una domanda che più volte fu sollevata con Monsignor Lagnese. Poi, all’improvviso, abbiamo saputo del suo trasferimento a Caserta a dicembre 2020 e poi siamo rimasti sospesi perché la Santa Sede sembrava che volesse mandare il vescovo per Ischia, poi c’è stato uno strano silenzio. All’improvviso è arrivata la nomina di Monsignor Pascarella, già vescovo di Pozzuoli, che avrebbe unito le due Diocesi. Monsignor Pascarella, nella sua amabilità, fa i conti con la sua età, si divide su questi due lembi e va avanti e indietro. Effettivamente si sta spendendo molto nonostante l’età. A giorni compirà 74 anni e il codice l’anno prossimo gli chiederà di rassegnare le dimissioni dal governo di queste Diocesi. Anche lui si trova a dover affrontare una situazione nuova. Penso di non dire nulla di straordinario se affermo che tutta la Chiesa Cattolica di Ischia ha il desiderio vivo che la Santa Sede muti opinione e non unisca le due Diocesi in persona episcopi o domani, proprio in una maniera effettiva, cancelli il nome di Ischia, ma ci ripensi. Non è solo una questione di abitudine, ma una questione veramente pastorale.

Ischia – spiega il parroco – non solo vanta una storia più che millenaria come Chiesa, ma Ischia non si può considerare solo nei suoi 60.000 residenti. Ischia aveva un flusso turistico notevolissimo. Abbiamo contato anche 5 milioni di presenze turistiche all’anno e ciò significa che la Diocesi si ingrandisce e non territorialmente. Per noi questo significava avere un raggio di azione veramente esteso. Noi non abbiamo bisogno di andare in terra di missione, è la gente che viene qui. E non viene meno per il compito della Chiesa di evangelizzare e di accogliere i turisti anche con uno spirito profondamente cattolico. Però, mancando il vescovo residenziale, questo si affievolisce. Ecco, la Santa Sede non ha tenuto conto di tutto questo. Certo è che noi ne stiamo soffrendo. Sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo, quando Monsignor Tomassini fu mandato fuori di Ischia e qui venne Ursi come amministratore dal 1970 al 1972, poi fu mandato Monsignor Parodi, ma non come Vescovo di Ischia bensì come ausiliare di Napoli e amministratore apostolico, perché c’era l’intenzione di sopprimere la Diocesi. Poi Parodi fu fatto vescovo di Ischia nel 1981, era cambiato un po’ il clima a Roma. Si dovette aspettare un anno per avere monsignor Pagani, e anche in quell’anno, quando Scoti resse la Diocesi, le voci ecco di una possibile soppressione circolavano e fecero tremare. All’epoca avevamo pure parecchi preti e adesso i numeri non è che ci aiutino tanto, però noi siamo fiduciosi. Ecco, che questo clima un po’ di smarrimento possa sciogliersi come la neve al sole e, speriamo, che un domani potremmo avere il Vescovo residenziale. Anche perché la presenza del Vescovo potrebbe dare una spinta di entusiasmo in tutta la Comunità”

Quanto ti manca Don Giovì?
Eh… Questa è una domanda trabocchetto. Mi manca molto. Anche se per fede, è vicino in una maniera diversa. Non so se posso dire una confessione: alcune volte, di soprassalto, mentre sto facendo qualche cosa, scatto e dico, “mamma mia, oggi non sono passata dal parroco” e poi mi devo fermare mentalmente, devo dire no, non c’è più la necessità di correre ogni giorno a fargli visita.

Facendo un’altra riflessione, il bagaglio d’esperienza di chi ha già vissuto momenti di guerra, può servire?
“Il parroco (Mons. Giuseppe Regine, ndr) entrò in seminario nel ’39 e, all’indomani del suo ingresso in seminario, l’Italia entrò in guerra. Lui ha sempre raccontato gli anni della guerra e ha sempre raccontato la fame, la povertà che anche in seminario si provava. Non c’era niente e si era alla bontà di qualche famiglia che magari portavano in seminario uova, qualche prodotto della campagna, ma si faceva la fame. Ecco, questi fatti, formarono il parroco come tutti i suoi compagni. Hanno visto anche la disperazione di tante persone che vedevano i propri uomini partire per la guerra e la guerra li ha segnati profondamente.

Però poi, dopo, quei racconti hanno aiutato a comprendere che non è che si possa avere tutto subito e facilmente. Sembravano dire “noi, le nostre cose, ce le siamo dovute guadagnare, abbiamo sudato e abbiamo faticato molto. Sicuramente tutti quei racconti sono stati utili, edificanti e oggi, forse potrebbero essere utili anche alle nuove generazioni, affinché non si dia tutto per scontato come accade con i nostri ragazzi. Non è colpa loro, è colpa nostra, gli educatori dovremmo essere noi più adulti. Li abbiamo messi sotto la campana di vetro e abbiamo dato tutto immediatamente, senza che attendessero, che, poi, successivamente questa pseudo generosità presenta il conto e alla prima difficoltà si cade immediatamente e non si è capaci di affrontare un problema, sembra che tutto il mondo ce l’abbia contro qualche povera vittima, ma non è così, è la vita. E allora ecco quei racconti sicuramente tornano.

C’è bisogno di speranza
“Non bisogna mai perdere la speranza” questa è una frase sicuramente trita e ritrita, nel senso che è una frase talmente vera e giusta che ognuno la fa propria, però vorrei ripeterla riferendola a chi proprio qualche giorno fa l’ha citata, perché qualche giorno fa Monsignor Camillo d’Ambra, Don Camillo è stato intervistato da Pietro Coppa e da Luciano Castaldi per l’album dei ricordi e lui, con i suoi quasi 97 anni, ha proprio chiuso questa intervista con queste parole, “di fronte alla guerra o di fronte a qualsiasi difficoltà, non bisogna mai perdere la speranza”.

Certo per un credente la speranza non si può perdere perché la speranza è Cristo. Allora, se tu credi non puoi disperare, il Signore non ti lascerà mai solo di fronte a qualsiasi problema, ma tu non sei mai solo.
Papa Benedetto non diceva “Chi crede, non è mai solo”? ma ciò vale anche per il non credente. In questo momento penso che sia importante non perdere la speranza.

Fondando questa affermazione sul fatto che c’è del buono in ogni uomo, anche in quelli che magari adesso noi li etichettiamo come i cattivi di turno. E forse dobbiamo fare leva proprio sulla bontà che è insita in ogni essere umano, perché venga fuori in una maniera più forte. E poi, se noi perdiamo la speranza, che cosa abbiamo guadagnato? Forse contribuiamo a un mondo migliore oppure riusciamo a incoraggiare i più giovani? Assolutamente no. E allora, pure se magari con sforzo, in alcuni momenti bisogna sempre guardare avanti, vedere cosa, nelle nostre possibilità, ci è dato di fare e dobbiamo portare, nel mondo in cui viviamo, per le forze che abbiamo, il nostro contributo, piccolo, grande che sia. Diceva Madre Teresa “pure una goccia d’acqua”, però, ecco, il mare sarà più ricco se ci sarà quella goccia d’acqua e noi questo dobbiamo fare. Dal nostro piccolo, questo dobbiamo farlo”.

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