Incontriamo don Giuseppe Nicolella, di ritorno dal Burkina Faso. In qualche modo, questo Paese ci ha chiamato: in passato avevamo ospitato anche il vescovo di quella diocesi. Ischia, e in particolare le comunità di San Domenico e di Sant’Antonio Abate, hanno risposto con entusiasmo.
Oggi vogliamo raccontare questo viaggio e questa amicizia che unisce due popoli distanti migliaia di chilometri.
«Il Burkina Faso, che fino a qualche tempo fa conoscevamo solo attraverso l’atlante, è entrato nella vita della parrocchia di Sant’Antonio Abate grazie a un napoletano: fratel Vincenzo Luise, un religioso camilliano che fu inviato in missione. Così, con il mio arrivo a Sant’Antonio, abbiamo deciso di organizzare l’attività missionaria della comunità. Per evitare di disperdere le energie, abbiamo scelto di concentrare il nostro impegno su un unico progetto. È nata così la nostra predilezione per il Burkina Faso, grazie anche ai Camilliani presenti nel Paese e alle suore di Angri, che vi gestiscono due case. L’anno scorso, i Camilliani ci hanno chiesto un aiuto per il “Gandalf”, un centro poliambulatoriale che aveva bisogno di una sala operatoria per la chirurgia d’urgenza e per i parti cesarei. La mortalità materna e neonatale in Burkina Faso è ancora molto elevata: questo dato ci ha profondamente colpiti e ci ha spinti ad agire.



















Con i collaboratori ci siamo detti: “È l’Anno Santo a Roma, dobbiamo fare il pellegrinaggio e tutto il resto, ma perché non organizzare anche un pellegrinaggio diverso? Invece di inviare solo denaro, perché non andare direttamente sul posto?”.
Un collaboratore della parrocchia, Luciano, è stato in Burkina Faso già dieci volte, ma per me sarebbe stata la prima esperienza. In parrocchia, in occasione del Mercoledì delle Ceneri, dopo la Messa abbiamo avuto un incontro per raccontare il viaggio in tutte le sue fasi. E’ stato un momento per rendere conto di ciò che abbiamo portato in Burkina Faso, a nome di tante persone della parrocchia e di altri benefattori. Devo dire la verità: quando si avviano iniziative di questo tipo, emerge sempre il cuore buono dell’uomo. Anche chi non è credente partecipa volentieri.
GUERRA CIVILE
«Il Burkina Faso è una delle quattro nazioni più povere al mondo. La colonizzazione, di fatto, non è mai davvero terminata. Per quanto oggi ci sia uno sforzo politico per emanciparsi dall’Europa, i danni lasciati dal colonialismo sono ancora evidenti. La Francia ha avuto un ruolo centrale nella storia del Paese e oggi il Burkina Faso si trova in piena guerra civile. Una parte della nazione è occupata da gruppi armati, definiti “terroristi”, che ricevono finanziamenti dall’estero, mentre l’altra parte cerca un’indipendenza totale, che sembra ancora lontana. Per ottenere armi e pagare i militari, il governo è costretto ad appoggiarsi ad altre potenze e attualmente ha stretto legami con Russia, Turchia e Siria.
Eppure, il Burkina Faso è una terra ricca di risorse. Il sottosuolo è pieno d’oro e se potesse essere sfruttato a beneficio della popolazione il Paese potrebbe essere autosufficiente. Ma la realtà che abbiamo visto è ben diversa: la stragrande maggioranza della popolazione vive ancora nei villaggi in condizioni di estrema povertà. Non c’è energia elettrica, né acqua corrente. Le abitazioni sono poco più che recinti con al centro una capanna dove dormire. Tutto il resto della vita quotidiana si svolge all’aperto. Non esistono servizi igienici, si cucina su fuochi a cielo aperto e le giornate trascorrono così, tra le attività quotidiane e la sopravvivenza. Solo chi può permettersi di pagare la retta scolastica può frequentare la scuola, ma l’alfabetizzazione è molto bassa. Per molti bambini, quindi, non c’è neanche la speranza di un riscatto sociale.
Ecco perché l’adozione a distanza è così importante: offre ai bambini la possibilità di studiare, di immaginare un futuro diverso o, almeno, di sognarlo.
PIAGHE SOCIALI PROFONDE
«Abbiamo visto tante persone anziane costrette a convivere con la malattia e la vecchiaia senza alcuna possibilità di una vita sociale. Non esiste la pensione.
Abbiamo visto piaghe sociali profonde. Ho visto i lebbrosi. Abbiamo visto le vedove. Lì la vedovanza è una vera piaga sociale: le donne che non si risposano in breve tempo vengono considerate streghe e rischiano di essere lapidate o addirittura uccise. Per questo motivo i cristiani salvano la vita a molte donne semplicemente offrendo un’abitazione e permettendo loro di continuare a vivere dignitosamente.
Abbiamo anche visitato una struttura voluta espressamente dal vescovo Prosper per accogliere i malati di mente. In Burkina Faso, infatti, i manicomi non esistono e queste persone vengono abbandonate a loro stesse, lasciate in mezzo alla strada senza alcuna assistenza.
Lo stesso accade nelle carceri. Chi finisce in carcere è condannato a morire di stenti, a meno che la sua famiglia non gli porti del cibo. Lo Stato non fornisce vitto, alloggio, cure o altro: semplicemente, il detenuto è lasciato al suo destino. Non esiste il concetto di riabilitazione o di reinserimento nella società. In alcuni villaggi, addirittura, è stata reintrodotta la gogna pubblica.
Questa situazione è il riflesso di un Paese in guerra civile, dove il clima di paura è palpabile.
Abbiamo visto anche cose molto belle. Per esempio, il Burkina Faso ha una popolazione estremamente giovane e i bambini sono ancora numerosi. Bastava dare una caramella a un piccolo e, in un attimo, ci trovavamo circondati da centinaia di bambini, spuntati da ogni angolo con sorrisi e occhi pieni di stupore. Abbiamo visitato le scuole, che purtroppo sono poche e riservate solo ai più fortunati. L’istruzione, in un Paese così povero, resta un privilegio per pochi. Abbiamo visitato una scuola cattolica con 1.200 studenti, dall’asilo fino al liceo, un collegio femminile e un’altra scuola cattolica più piccola. Abbiamo anche visitato i seminari: quello minore e il propedeutico, entrambi gremiti di vocazioni.
Io stesso ho avuto l’opportunità di partecipare a una Messa presieduta dal cardinale Parolin. E, quasi per caso, mi sono ritrovato lì nel 125mo anniversario dell’arrivo del cristianesimo in Burkina Faso. Per questa occasione speciale, i vescovi del Paese hanno invitato il Segretario di Stato vaticano. La celebrazione si è svolta in una spianata gremita di 3 milioni di persone in un raccoglimento straordinario, interrotto solo dai canti».
PROGETTO DA REALIZZARE CON 35.000 EURO
Qual è la lezione che si porta a casa don Giuseppe?
«Lo dicevo ai ragazzi della parrocchia: alcune esperienze vanno vissute, perché noi, purtroppo, tendiamo ad assolutizzare la nostra realtà. È come se per noi il mondo intero fosse Ischia, l’Italia, l’Europa. Pensiamo che ovunque si ragioni come facciamo noi e magari ci illudiamo che, più o meno, tutti stiano bene come noi. Invece chiuderci nei nostri schemi mentali e nelle nostre piccole certezze finisce per indurire il nostro cuore, per farci lamentare di tutto, persino della grazia di Dio.
Vedere un bambino che mangia in una ciotola un pugno di riso – il suo unico pasto della giornata – ti cambia. Una dieta poverissima, sempre uguale. E poi pensiamo ai nostri bambini, che spesso davanti a un piatto dicono “questo non mi piace”.
Per questo dicevo ai ragazzi: fare esperienze come questa fa bene, dilata il cuore. E spero davvero che potremo tornare in Burkina Faso, non solo per l’inaugurazione, ma anche per la benedizione di quello che è un vero e proprio padiglione ospedaliero: un intero edificio con due sale operatorie e stanze di degenza. Un progetto significativo.
Quando siamo stati lì, i familiari dei pazienti erano stupiti. Non pensavano che avremmo portato, come acconto, ben 14.000 euro. E abbiamo già altri fondi disponibili.
A proposito, 14.000 euro in Burkina Faso hanno un valore enorme. Un euro equivale a 655 franchi CFA, la moneta locale. Per fare un confronto, l’intero padiglione costa tra i 30.000 e i 35.000 euro, una cifra con cui in Italia non riusciremmo nemmeno a coprire le spese burocratiche per la costruzione di una sala operatoria. Lì, invece, con questa somma si arriva quasi a completare l’opera. Consideriamo anche il costo della manodopera: lo stipendio di un muratore, che è considerato un operaio con paga bassa, si aggira intorno ai 120 euro al mese per un lavoro di 20 giorni. Un professore universitario, che ha uno degli stipendi più alti, guadagna circa 400 euro al mese.
Quando torneremo spero che non saremo solo in tre, bensì di più. Anche perché c’è la possibilità di organizzare campi di lavoro. C’è davvero tanto da fare. Chi si reca in Burkina Faso come volontario può tranquillamente lavorare come operaio, insegnante, oppure offrire il proprio aiuto come infermiere o medico.
Ora che ho raggiunto i 45 anni, mi rendo conto che esperienze del genere mettono in crisi la coscienza. Quando ti trovi davanti a certe realtà, inevitabilmente ti interroghi. Non è che mi sia venuta la vocazione di diventare missionario – la mia vocazione è essere parroco qui – ma mi sono chiesto: “Quante cose inutili ho sprecato? Ho gestito bene i beni che avevo? Avrei potuto condividere di più?”.
Esperienze come questa fanno crescere, fanno bene, e sicuramente orientano la vita in un modo diverso. Non si tratta di disprezzare la nostra storia, il luogo in cui viviamo, le nostre tradizioni o il nostro mondo. Anzi, possiamo esportare in questi Paesi più poveri parte della nostra esperienza, le conquiste positive che abbiamo raggiunto».
AIUTARE TUTTI, ANCHE CHI E’ LONTANO
Qualcuno potrebbe dire: ma con tutti i poveri che abbiamo qua andiamo in Africa…
“Anche noi abbiamo situazioni di indigenza e tante forme di povertà. Ma c’è una grande differenza tra considerarsi poveri perché non si può acquistare l’ultimo modello di cellulare o perché, magari, una volta non si riesce a pagare una bolletta, e l’essere poveri perché non si ha nulla da mangiare. Anche in Italia esistono persone che vivono in condizioni di estrema povertà, come i senzatetto che realmente si trovano in uno stato di indigenza assoluta. Ma io credo profondamente in un principio: il bene non si divide, si moltiplica. Aiutare chi è in Africa non significa chiudere gli occhi di fronte alle necessità di chi è vicino a noi. Semplicemente, si cerca di coinvolgere quante più persone possibile. Ognuno di noi, però, deve essere consapevole che non può salvare il mondo.
I grandi santi, quelli che hanno dedicato la vita ai poveri, come San Vincenzo de’ Paoli o, più recentemente, don Oreste Benzi, hanno fatto la loro parte, ma non hanno potuto salvare il mondo intero. Tuttavia, ci hanno insegnato una cosa fondamentale: quando qualcuno bussa alla porta, bisogna rispondere. Fare la propria parte, anche se può sembrare solo una goccia nell’oceano, è comunque fondamentale. E poi, spesso, proprio quel piccolo gesto diventa contagioso, ispirando altre persone a fare altrettanto, sia per chi è vicino che per chi è lontano. Perché aiutare uno non impedisce di aiutare l’altro.
Al ritorno dall’Africa, diverse persone mi hanno detto: “Non lo sapevo, tienimi informato! Anch’io voglio adottare un bambino, voglio donare una capra o una gallina a una famiglia, voglio aiutare queste donne”. In fondo, il bonum diffusivum sui è una realtà: il bene non fa altro che generare altro bene.
Non vedo alcuna contraddizione in tutto questo. Poi è normale che ci sia sempre qualcuno pronto a criticare. Io, però, proporrei un’altra prospettiva: invece di parlare e criticare, ognuno faccia la propria parte. Spesso, chi parla tanto fa poco o niente. Al contrario, nel silenzio ci sono tantissime persone che, evangelicamente parlando, “non fanno sapere alla destra ciò che compie la sinistra”. Ci sono uomini e donne che, senza clamore, fanno del bene: cucinano alla Mensa del Sorriso, portano cibo ai senzatetto alla stazione di Napoli. Nessuno li conosce, sono pochi, ma nel silenzio fanno tanto».
LE VOCAZIONI MISSIONARIE
Quanto fa bene alla comunità questa iniziativa?
«Penso che questa esperienza faccia un bene immenso, perché ha fatto bene a noi. La comunità cresce anche attraverso queste esperienze. E non solo attraverso la testimonianza diretta, ma anche semplicemente ascoltando un racconto, guardando un video o osservando una fotografia. Anche solo questo può smuovere qualcosa nell’animo umano e accrescere il senso di solidarietà. Ma riflettevo anche su un altro aspetto. Ischia, in passato, ha dato missionari alla Chiesa, soprattutto tra i Camilliani. Forse, con il boom turistico che ha investito l’isola dagli anni ‘50 in poi, abbiamo perso questa dimensione missionaria. Chissà, magari esperienze come questa potrebbero riaccendere il desiderio di dedicarsi alla missione.
Un ragazzo della parrocchia, dopo aver visto un video del nostro viaggio, potrebbe dire: “La prossima volta voglio venire anch’io”. Una ragazza potrebbe decidere di fare un’esperienza in una delle due comunità di suore presenti in Burkina Faso e magari scoprire la propria chiamata. E non sarebbe forse un grande dono, non solo per la nostra comunità parrocchiale, ma per l’intera Chiesa? Sono fiducioso. Perché il bene che queste esperienze generano in una comunità ecclesiale è davvero grande».
