C’è una frase nel libro che ci può dare il là a questa chiacchierata: “Il deserto in pancia era giungla in testa”. Credo sia una un’esternazione appuntata, veloce, sul primo foglio di carta, perché doveva essere la fotografia di quel momento…
«Proprio così. Cico si era appena svegliato e non aveva mangiato niente la sera prima, e poi non capiva neanche dove stava: ecco la giungla in testa, l’opposto del deserto. Poi si guarda intorno e vede tutte le varie stampe su Roma, il Colosseo, il ponte sul Tevere e capisce che sta a Roma solo per quello. Ecco, era proprio un’immagine, come una Polaroid, la figura del momento».
Quante volte nella vita c’è stata questa sensazione di deserto nella pancia e di giunga nella testa?
«Il deserto nella pancia quasi mai, perché mangio in continuazione, mangio molte volte al giorno, anche se poco. Per cui mai con il deserto in pancia. La giungla in testa, invece, è perenne , c’è sempre!»
Questo Cico, un nome grande che poi diventa un hashtag, un nickname…
«Già, Francesco Maria von Altemberger dei Marchesi Isvardis, ma basta CICO perché lui non sopporta tutti questi nomi e questi ruoli».
-Tra l’altro scritti in prima persona e al maschile…
«Al maschile. Diciamo che è una cosa strana, solo dopo mi sono resa conto che stavo scrivendo in prima persona al maschile. Non è che ci ho pensato prima, mi sembravano talmente naturali quelle cose, che neanche ci ho pensato. Non è che fai un ragionamento per dire ora faccio così. Per cui ho pensato che questo personaggio che mi sono inventata era naturale, e quindi era naturale che io parlassi al maschile. Me lo hanno fatto notare gli altri, perché io proprio non me ne ero resa conto, talmente ero immedesimata. Io mi rivedo molto anche nelle situazioni delle persone, le raccolgo e magari le scrivo perché mi vengono da dentro. Per cui questa interazione così forte mi ha fatto immedesimare proprio in un maschio, molto particolare, molto pieno di fisime. Mi sono divertita molto».
Un altro maschio, Alberto Longhi.
«Eh, è un giornalista».
E quanti Alberto Longhi Enrica Bonaccorti ha incontrato, quanti sono stati impertinenti?
«No, no, nessuno impertinente. E’ proprio lo stereotipo del giornalista. Un po’ deluso dalle sue aspettative, che si lamenta tanto per quello che non è riuscito a fare. Segue questo strano personaggio che è Cico. Lo aiuta in alcune cose pratiche, perché Cico per le cose pratiche non è portato. Non è che si fidi tanto di chi ha accanto, però insomma, ha già abbastanza fiducia per potersi confidare e ogni tanto affidargli delle cose. Così come nel primo libro di Cico, il Condominio, addirittura gli affida i diamanti di nonna Ghia. Eh, ragazzi, che storia quella dei diamanti!».
LE TARTARUGHE
Entriamo un po’ nella vita di Enrica. Questa passione per le tartarughe?
«Una passione da quando avevo 27 anni. Avevo la tartaruga nel mio giardinetto che andava in letargo e poi usciva nuovamente a un certo punto. Quell’anno non usciva, stava nel terriccio… così, allora io l’ho cercata, era un giardinetto piccolo. Quando l’ho trovata e l’ho tirata su dal carapace, pensando di trovarla come al solito, feci come per darle un bacino e invece purtroppo non c’era più. Se l’era mangiata un cane. Ne ho avuto un trauma, così l’ho buttata e il mio fidanzato di allora con cui convivevo, molto carinamente, mi ha portato subito fuori e siamo andati in un negozio di giocattoli, dove mi ha comprato una tartaruga di peluche dicendo che così d’ora in poi non avrei avuto più delusioni. Da quella tartaruga di peluche ne sono nate altre quasi 500. Ormai le ho nelle casse perché non abito più in campagna. Ma comunque per casa ce n’è sempre una cinquantina».
E Ada, la tartaruga di Cico?
«Ada assorbe, attutisce. Ada è una valvola di sfogo per Cico, che non sopporta le invadenze. E la sua tartaruga Ada non si sa se sia Adalberto o Adalgisa, ma non ci interessa il sesso, basta che stia lì e che lo segua senza tentare di abbracciarlo. Detesta gli abbracci. Io sono molto più Cico che Ada. Ada ha la sua capanna, la sua casa, non deve cercare i posti, vuole l’essenziale, ha bisogno di poche cose».
C’è una vacanza ischitana nella storia di tanto tempo fa, proprio qui al Regina Isabella…
«Si, con mia madre e mia figlia. Mi ricordo solo che era stata molto bene ed era molto contenta. Mia madre, napoletana, era felicissima di essere qua, mia figlia era ancora piccola, però siamo state molto bene».
Qualche altro ricordo che arriva da Ischia.
«Non da quella vacanza. Un’altra volta sono stata a Ischia per una serata e sono stata colpita da tanta bellezza. Avevo scritto una ballatina per Ischia. Avevo immaginato tutto questo meraviglioso Golfo come una collana e, al centro, la pietra importante: Ischia».
TROPPI TRASLOCHI
La passione, invece, per la scrittura e il rapporto con Domenico Modugno.
«Beh, con la scrittura ho vinto i primi soldi scrivendo a 13 anni, poi ho rivinto a 15 anni nei concorsi letterari, poi a 19 anni ho scritto “La lontananza” con Mimmo, poi a 21 a “Maratea”, a 24 anni la sceneggiatura e poi tutti i testi delle trasmissioni radiofoniche che facevo allora negli anni ’70. Ho sempre scritto. Il mio studio è pieno di cose inevase. Perché non le ho mai magari tirate fuori, è pieno di racconti e di poesie, di libri iniziati, di spunti, di appunti. Non posso stare senza scrivere, è la mia esigenza».
Facendo un ragionamento su questo libro, “Condominio, addio!”, forse ne stiamo vivendo una rappresentazione troppo forte. Cambiamo indirizzo, lasciamo il condominio, magari perché stiamo bene o perché stiamo male. Comunque c’è bisogno di un cambiamento, no?
«Io sono figlia di un ufficiale di Polizia, per cui ho subito fin da piccola i trasferimenti. Quando ti staccano a 12 anni dalla tua città, in cui pensavi di vivere sempre nella tua classe di compagni che avevi dalla prima elementare, non è facile. Tutti quelli che sono figli di genitori soggetti a trasferimenti, lo sanno. E poi è vero si. Il trasloco, fra l’altro, è al secondo posto dopo la morte di un coniuge tra le cose che ti causano più stress, più dolore e più problemi. E io di traslochi ne ho fatti tanti».
LA TELEVISIONE CHE NON C’E’ PIU’
Per me la Bonaccorti fa parte di un’età particolare. Noi siamo quelli di “Non è la Rai”, siamo quelli dei programmi alle 12.00. Per noi cinquantenni è l’immagine di una televisione che non c’è più, di un modo di vivere che ormai è stato perso completamente, molto più lento. Ti manca?
«Mi manca tanto. Mi sembrava tutto più facile, solare, gentile. A me non piace la maleducazione in cui siamo caduti oggi e non mi piace la violenza. Pensiamo alle violenze che ci sono nel mondo. C’è soltanto da piangere e disperarsi. Viviamo in una condizione in cui hai una sensazione più brutta, che è quella di essere in una stanza con i muri imbottiti, per cui è inutile che ti lamenti, perché non puoi fare niente. Se ci fosse qualcosa da fare, sicuramente la farei. A volte sono contenta di non avere vent’anni, ma di avere tutti gli anni che ho, perché io a vent’anni non so cosa avrei combinato».
Ad una ventenne di oggi, che consiglio darebbe?
«Ricordati di andare sempre a testa alta e di seguire la testa. Tutto nasce nel cervello, lascia stare il cuore, segui il cervello».
C’è una domanda a cui tengo, è un argomento al quale sono sensibile: il ruolo della donna. Come Enrica Bonaccorti è riuscita a superare gli stereotipi di quella società. Oggi nel 2022, quando Samantha Cristoforetti scatta selfie nello spazio, mezzo mondo la guarda.
«Siamo molto indietro in Italia, molto indietro sul riconoscimento delle persone oltre i generi. Facciamo filtrare tutto dalla nostra considerazione su se uno è femmina o maschio, se la femmina ha quelle forme… e non riusciamo a uscire per niente da questa situazione. Ci si meraviglia che una donna si lamenti per una molestia: e che sarà mai… si è sempre fatto! C’è questo substrato che inquina tutto il pensiero. Io credo che siamo veramente indietro».
Il libro. Un oggetto romantico, che non si regala perché diventa parte di te stesso.
«Questo è un periodo in cui non si legge. Io credo sia proprio un suicidio collettivo, perché chi non legge non sa cosa perde e mi dispiace. Spero con questo mio libro, con la mia scrittura che è molto agile, mi dicono che si beve più che leggersi, spero di invogliare qualcuno a ricominciare a leggere. Io scrivo per un’esigenza mia, però se questa esigenza può fare rinascere una voglia, un’abitudine, sono felice. Anche perché l’uomo è un animale abitudinario. Provate a leggere, per esempio, il mio libro che è leggero, scorrevole e poi magari vi ritorna la voglia, l’abitudine di riprendere in mano questo oggetto strano che si chiama libro».