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Giuseppe Maggi e gli scheletri di Ercolano

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Popolazione di vivi e non di morti? Una necropoli che ha dato un campione per un censimento dell'anno 79 d.C dell'eruzione del Vesuvio. Il lavoro del Direttore degli scavi di Ercolano e le prospettive di conservazione

Felice di Maro |  Oltre alla visione di un filmato in 3D sull’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. e la visita al padiglione della barca gli scheletri degli antichi ercolanesi che si rifugiarono nella zona meridionale della città trovando comunque la morte rappresentano un obbligo per chiunque voglia cogliere un quadro dell’antica città di Ercolano.

Il primo scheletro è stato scoperto il 21 maggio del 1980 da Giuseppe Maggi. Ecco come lo presenta: ‘O muorto! ‘O muorto! Abbandonati gli attrezzi, gli operai si distendono, con le teste pencolanti nel vuoto, sul bordo della lunga e profonda incisione che avevamo creato parallelamente al muro meridionale della vasta area antistante le Terme suburbane. Il compatto banco tufaceo che da ogni parte soffocava l’edificio aveva ceduto di schianto per la violenta pressione di una vena d’acqua lasciando intravedere, nitidissimo, uno scheletro rannicchiato che, trascinato da un vorticoso mulinello, era subito scomparso in un profondo meandro [1]. Per Ercolano è una data storica.

Il 16 gennaio 1981 fu scoperto un primo gruppo di scheletri, a tutt’oggi ne sono 333. Ammassati l’uno sull’altro, probabilmente si rinchiusero nei fornici in attesa che il mare, agitatosi notevolmente in seguito all’eruzione del Vesuvio, si calmasse. Non fu così. Gli scheletri che si possono ammirare nei fornici numerati dal 7 al 12, dopo alcuni anni di restauro, sono oggi dei calchi realizzati in laboratorio copiandone le ossa originali e rimpiazzandone le parti mancanti.

Le nuove indagini condotte dal 1980 con l’ausilio di idrovore nei pressi della linea di costa del 79 hanno consentito di riscrivere completamente la storia della città. Sotto le arcate che sostenevano la terrazze delle Terme Suburbane e dell’Area Sacra ed utilizzate per la manutenzione ed il ricovero delle imbarcazioni gli scheletri dei fuggiaschi hanno consentito di fare analisi varie che hanno dato un quadro demografico in quanto l’insieme è sì una necropoli, ma è anche un campione sicuro della popolazione che doveva essere di 4000 abitanti [2].

Oggi gli archeologi non ritengono più che la maggior parte della popolazione di Ercolano si sia salvata. Chiaramente ha tentato la fuga via mare sostando sulla spiaggia durante la notte dove è stata sorpresa dalle colate piroclastiche. L’ipotesi che si erano salvati era in relazione al ritrovamento di pochi scheletri nell’ambito della cerchia urbana. In realtà, e oggi è chiaro, si erano stipati nei dodici ambienti con ingresso ad arcata, fornici, che erano usati come magazzini o rimesse per le barche.

Oltre le terme suburbane, sulla spiaggia, il 16 gennaio del 1982 si trovarono altri scheletri e Giuseppe Maggi scrive: La commozione prende tutti quando si scopre che siamo incappati in un gruppo di persone che si erano strette in un atto istintivo di conforto, come a proteggersi dalla Morte. Nonostante che a Napoli il 23 novembre c’era stato un terremoto e chiaramente c’erano problemi non si parlava che di questo ritrovamento. Era la prima volta che una scena di così sconvolgente pathos emergeva dall’antichità portando in luce veri protagonisti e non fantasmi di gesso come a Pompei.

Grazie alla liberalità di Giuseppe Maggi che era il Direttore degli scavi di Ercolano qualche mese dopo ho pubblicato la notizia [3] che aveva fatto il giro del pianeta. Altre brevi indagini sono state svolte nel 1988 e tra il 1996 ed il 1998. Dal 1997 Ercolano è stata inserita, insieme agli Scavi di Pompei e alle ville di Oplontis, nella lista dei siti del patrimonio mondiale redatta dall’Unesco.

Il problema della conservazione degli scheletri ha impegnato molto. Ecco come viene presentato: Sull’inizio dell’estate,(1982) in un afoso pomeriggio, vengono a visitare Ercolano due ospiti illustri: l’ambasciatore degli Stati Uniti Maxwell M. Rabb e il console generale di Napoli Walter John Silva, accompagnati dalle rispettive mogli. Mi folgorò un’idea. Perché non chiedere a quei rappresentanti del Paese più ricco e più tecnologicamente avanzato del mondo un aiuto per risolvere i problemi che mi assillavano, particolarmente per la conservazione delle vittime? Come responsabile, anni prima, del trasferimento della Mostra di Pompei da Chicago a Dallas avevo avuto modo di constatare che problemi per noi complessi, richiedenti lunghe procedure, si potevano risolvere anche per telefono. Cercai di essere suadente [4]. E venne ad Ercolano l’antropologa Sara Bisel da Atene, dove si trovava per un’altra impresa, inviata dalla National Geographic Society di Washington. Da un sommario esame si evidenziò che qualche corpo aveva le ossa fracassate e apparve chiaro che le vittime erano “diverse”.

Giuseppe Maggi dice: Non persone in attesa di un improbabile imbarco, ma gente strappata dal contado, risucchiata dalle case giù per le ripide strade della città, trascinata nell’infernale fiume di fango e proiettata al di là delle mura in un’ampia cascata che si allargava a ventaglio nel mare [5].

Giuseppe Maggi ha pubblicato un libro nel 2013 ampliando quello del 1985 ed ha lasciato alla storia le polemiche [6] ma ha presentato le prospettive di conservazione di questi scheletri che sono fondamentali per la storia di Ercolano.

[1] Giuseppe Maggi, Ercolano – Fine di una città, Napoli 2013, p41. In seguito Ercolano.
[2] Luciano Fattore, Gli Scheletri di Ercolano: le ultime evidenze e una sintesi di tre campagne di scavo e studio, in Cronache Ercolanesi, 43, 2013, pp. 225.
[3] Felice Di Maro, Riaffiora dal fango la tragedia di Ercolano, in Archeologia, XXI, Febbraio 1982, p.8.
[4] Ercolano, p.45.
[5] Ercolano, p.46
[6] Ercolano, p. 60: Quando nel 1985 ho scritto la prima edizione di questo volume col prevalente scopo di illustrare le scoperte fatte negli anni Ottanta che, pur fra molte carenze, hanno cambiato radicalmente la storia degli scavi di Ercolano, non mi erano abbastanza chiare le motivazioni del rifiuto di accogliere il contributo finanziario e tecnologico degli Stati Uniti. Qualche ipotesi l’ho poi avanzata nel volume Archeologia e ricordi, edito nel 2003. Oggi ribadisco, con piena convinzione, quanto credo di aver intuito lì. Una classe dirigente alla vigilia di “tangentopoli”, con i fondi FIO in arrivo che si potevano gestire con ampia discrezione e disinvoltura, non gradiva la concorrenza dei dollari, sui quali sarebbe stato assai difficile lucrare.

Articolo apparso su: ilquotidiano.it

 

 

 

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