Arrestato dai Carabinieri nel 2018, l’imputato ischitano Pasquale Migliaccio era stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione per detenzione al fine di spaccio di sostanza stupefacente, nonostante il pubblico ministero di udienza ne avesse chiesto l’assoluzione. A seguito del ricorso presentato dall’avv. Massimo Stilla, ora la Corte di Appello ha integralmente riformato quella sentenza con la formula perché il fatto non sussiste. Accogliendo le tesi del difensore e anzi andando al di là di quanto richiesto ovvero “il fatto non costituisce reato” o, in subordine, di applicarsi il minimo della pena.
Il reato veniva contestato «perché senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, deteneva al fine di cederla a terzi sostanza stupefacente del tipo eroina pari a grammi 4, occultata nel vano portaoggetti del motociclo tg. ***, nonché sostanza stupefacente del tipo eroina pari a complessivi grammi 0.80 all’interno dell’autovettura Ford Fiesta tg. ***, stupefacente che cadeva in sequestro unitamente ad euro 440 (rinvenuti nel portafoglio del Migliaccio), ad un coltello con lama annerita, a due paia di forbici e ad una busta in cellophane con ritagli circolari (rinvenuti in un vano adibito a ricovero attrezzature in possesso del Migliaccio), nonché ad un bilancino elettronico di precisione marca YIJIE ed ad un taccuino con pagine manoscritte (rinvenuti nell’appartamento ubicato in Casamicciola, ove il Migliaccio conviveva con la compagna). Fatto accertato in Ischia il 23.9.2018. Con la recidiva specifica».
DENUNCIATO DALLA SORELLA
La dettagliata motivazione dell’impugnazione ha in pratica “smontato” la sentenza emessa nel 2021 dal giudice monocratico della Sezione distaccata di Ischia. Definendo le argomentazioni su cui era fondata «del tutto incompatibili con le univoche risultanze processuali».
Una motivazione, si rileva nel ricorso, «basata esclusivamente su mere congetture e non supportata da alcun riscontro oggettivo», richiamando la richiesta assolutoria del pm, «non essendo emersa, al di là di ogni ragionevole dubbio, la prova che tale sostanza era destinata allo spaccio». Dalla istruttoria dibattimentale emergeva una qualificazione giuridica del fatto completamente differente. Ad iniziare dalla circostanza, di cui il giudice non ha tenuto conto, che l’imputato era un conclamato tossicodipendente in cura presso il Sert. Il che integrava la “semplice” detenzione di sostanza stupefacente per uso personale. L’avv. Stilla ha anche richiamato l’aspetto più doloroso di quella che definisce «disperata vicenda», ovvero che il Migliaccio era stato denunciato dalla sorella nella speranza di tirarlo fuori dal tunnel della tossicodipendenza. Ricordando che la donna, «stanca di vedere il proprio fratello distruggersi con l’uso dell’eroina, predispone e attua con la figlia un espediente per trarre in inganno il fratello al fine di farlo arrestare con la speranza che lo stesso potesse intraprendere un serio percorso terapeutico presso una Comunità di disintossicazione». La stessa sorella in sede di indagini difensive rendeva dichiarazioni a conferma di tale tesi, aggiungendo un passaggio fondamentale: «inventando, tuttavia, artatamente sia che la sostanza era stata recapitata presso l’abitazione del fratello Pasquale da uno sconosciuto con il volto travisato sia del racconto del viavai di persone sotto casa».
LA MOTIVAZIONE “SMONTATA”
Una premessa per smontare appunto le tesi del giudice analizzandole una ad una. Il giudicante scriveva che «gli indizi di colpevolezza a carico del Migliaccio in ordine al reato di detenzione di stupefacenti a fini di cessione a terzi, sono plurimi e concordanti. Innanzitutto le modalità di confezionamento dell’eroina in buste di cellophane termosaldate, evidentemente finalizzate ad un più agevole trasporto della sostanza, trasporto che a sua volta poteva essere funzionale solo alla cessione a terzi, perché in caso contrario le modalità di custodia sarebbero state diverse, vale a dire tali da consentire un immediato e più agevole consumo dello stupefacente all’interno dell’abitazione. In altri termini, la stessa detenzione delle buste all’interno dell’autovettura costituisce un indizio nel senso che la sostanza era lì per essere trasportata con tale mezzo di locomozione e quindi consegnata a terzi in altro luogo».
Aggiungendo che «il bilancino di precisione all’interno dell’appartamentino utilizzato sempre dal Migliaccio costituisce uno strumento per la pesatura, utile a consentire il successivo confezionamento in dosi per quantitativi determinati e quindi per la loro cessione a terzi acquirenti. Non è invece credibile quanto dichiarato dalla di lui fidanzata dinanzi al difensore dell’imputato in sede di investigazioni, laddove ha affermato che il bilancino era in realtà utilizzato da lei nell’immobile di proprietà del fratello per il proprio lavoro di parrucchiera a domicilio, al fine di misurare la polvere di decolorazione per la tintura dei capelli. Non è credibile perché se tale attività veniva svolta presso il domicilio altrui, non aveva senso tenere il bilancino in casa anziché portarlo con sé durante il lavoro». Oltre a giudicare tali dichiarazioni inattendibili in virtù del legame affettivo con l’imputato. Sosteneva poi che il coltello con lama annerita, secondo quanto riferito dal teste dell’Arma, «costituisce poi un tipico mezzo per tagliare con maggiore precisione l’hashish». Che però non era stato rinvenuto nel corso dell’operazione che aveva condotto all’arresto.
NESSUN RISCONTRO SULLO SPACCIO PRESUNTO
Ebbene, per l’avv. Stilla «Nessun riscontro è stato fornito alla presunta ed asserita attività di destinazione e/o cessione di sostanza stupefacente a terzi da parte del Migliaccio Pasquale, così come invece indicato dal Giudice di prime cure». Sulle modalità di confezionamento dell’eroina, «tale ragionamento non può essere in alcun modo condiviso poiché come ampiamente narrato dallo stesso imputato in sede di esame, il medesimo avendo il vizio di fumare l’eroina in qualsiasi momento della giornata era solito portarsi con se la sostanza già confezionata». Aggiungendo che «è notorio che le persone affette da questa dipendenza non usano accorgimenti in merito al luogo di consumo, specialmente nei momenti di bisogno impellente». Inoltre «L’imputato ha motivato, con dovizia di particolari, che non voleva correre il rischio che con tutto il “pezzo” grande poteva incorrere in guai giudiziari».
Analogo ragionamento per la custodia del piccolo quantitativo di sostanza all’interno dell’autovettura, evidenziando che «la stessa era riposta all’interno del portacenere, senza essere nascosta con accorgimenti astuti e senza alcuna particolare modalità di custodia con la conseguenza che nessun significato accusatorio può assumere tale circostanza».
Sull’attività di confezionamento ritenuta abituale, ha rintuzzato che «il Migliaccio, per l’appunto, si portava la piccola dose quotidiana di stupefacente con sé all’interno di piccoli involucri di cellophane che preparava all’interno del piccolo vano deposito adibito a ricovero di attrezzature».
Quanto al bilancino «rinvenuto in sede di perquisizione domiciliare presso l’abitazione del cognato del Migliaccio sita in Casamicciola Terme alla via Cumana è agevole argomentare che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, è assolutamente credibile che lo stesso veniva utilizzato dalla fidanzata dal momento che la stessa svolge proprio il lavoro di parrucchiera».
E la stessa «utilizzava il predetto bilancino non soltanto per il lavoro di parrucchiera ma, anche, per misurare gli ingredienti da cucina e per tale motivo lo stesso si trovava anche nella predetta abitazione».
Con una pesante critica alla sentenza di primo grado: «Ci si chiede come era possibile procedere all’attività di confezionamento dello stupefacente ai fini di spaccio se i presunti arnesi sono stati rinvenuti presso l’abitazione del Migliaccio in Ischia, mentre il bilancino di precisione è stato rinvenuto presso l’abitazione del cognato sita in Casamicciola Terme? Inoltre, nell’ambito di un’attività di spaccio si presuppone che tutti gli attrezzi atti al taglio e al confezionamento della sostanza siano custoditi in un solo posto».
Quanto poi al coltello annerito, «innanzitutto dall’esito dell’istruttoria dibattimentale non è emerso assolutamente che sul coltello caduto in sequestro siano stati fatti accertamenti circa la presenza di sostanze stupefacenti del tipo hascisc». Mentre il Migliaccio ha chiarito che lo utilizzava per lavori idraulici. Dunque: «Da tanto discende che poiché dalla perquisizione personale e domiciliare non è stata trovata assolutamente altra sostanza stupefacente che non fosse eroina, è del tutto indimostrata l’affermazione del Tribunale che il Migliaccio fosse dedito al confezionamento di qualsiasi sostanza stupefacente e quindi spacciatore professionale».
IL RAGIONEVOLE DUBBIO
A questo punto l’avv. Stilla evidenzia l’assenza di elementi a sostegno della penale responsabilità dell’imputato, neppure in termini di riscontro, «in base del principio del “al di là di ogni ragionevole dubbio”, essendosi il Giudice di prime cure limitato ad una valutazione atomistica e parcellizzata di diversi indizi, senza neppure che gli stessi siano fondati e tenuto conto che gli stessi non convergono neppure nella stessa direzione». Tutto ciò in palese violazione dei principi di diritto vigenti, e a sostegno richiama la giurisprudenza di legittimità della Suprema Corte di Cassazione: «In tema di valutazione della prova indiziaria il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza, saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana”».
Gli indizi conservano la loro rilevanza, ma «devono corrispondere a dati di fatto certi – e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza – e devono essere “gravi” – cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto – “precisi” – cioè non equivoci – e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato. Requisiti tutti che devono rivestire il carattere della “concorrenza”, nel senso che in mancanza anche di uno solo di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale».
LA MANCATA CONCESSIONE DELLE ATTENUANTI
Una censura arriva anche alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, «sulla base della seguente illogica ed erronea motivazione: “…posto che non sussistono elementi per una qualche valutazione positiva del comportamento dell’imputato. Invero la concessione delle attenuanti deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato, nel momento in cui l’ultimo comma della norma sopra citata specifica che non è sufficiente a tale scopo neppure uno stato di incensuratezza, che nel caso di specie fra l’altro non sussiste”». Una motivazione definita scarna e generica che «ha precluso, a priori ed ingiustificatamente, una possibile valutazione personalistica dell’imputato». Ed invece la giurisprudenza raccomanda che «Va riqualificato il fatto nel reato ex art. 73 co 5 DPR 309/90, prefigurabile nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, tenuto conto dell’esiguo quantitativo di stupefacente caduto in sequestro e dell’assenza di elementi sintomatici dello stabile inserimento del prevenuto in contesti di spaccio in forma organizzata, circostanze che consentono di considerare il fatto di ridotta offensività».
Una pena ritenuta sproporzionata e l’avv. Stilla rincara la dose: «Nel caso di specie, inoltre, il Tribunale ha anche erroneamente applicato la recidiva specifica senza considerare che il nuovo episodio delittuoso non è concretamente significativo, in rapporto alla natura e al tempo di commissione del precedente reato risalente ad oltre venti anni orsono».
Il tutto «anche in considerazione del fatto lo stesso Tribunale ha ritenuto “la scarsa quantità di eroina trovata in possesso del Migliaccio”». E i giudici di secondo grado hanno fatto giustizia, con l’assoluzione piena dell’imputato.