Luciano Castaldi | Un’anziana donna nel suo giardino. Ha atteso per un anno di rinnovare questo appuntamento. Raccoglie, dopo averli curati, accarezzati, contemplati, i suoi fiori, le sue calle bianche da destinare alla Madonna. Una scena che da piccola ha visto fare tante volte alla sua nonna. Una scena domestica, all’apparenza, ma in realtà dall’immenso valore simbolico. Il suo è un vero e proprio rito sacro, come i numerosi altri che compaiono nella nostra distratta quotidianità, in tutte quelle occasioni che coinvolgono il singolo e la sua comunità: dalle feste stagionali ai riti di passaggio che scandiscono il tempo delle generazioni. Sì, la vita è relazione ed apertura alla trascendenza. È aspirazione all’Uno. Bisogno di comunità.
Ad ogni età, in ogni luogo e generazione. Ne fornisce appunto la prova la tradizionale giornata che oggi Forio dedica alla “sua” Madonna Addolorata e che l’anziana foriana vivrà come ha visto fare si dai primi giorni della sua vita. Si tratta di un rito che, al pari di altri analoghi fenomeni di persistenza nelle varie forme di ritualità, espressione delle diverse culture, sopravvive alle mutazioni antropologiche. Un rito che resiste nella sua funzione di legare insieme gli appartenenti alla loro comunità, coinvolgendo la singola persona dalla nascita fino alla morte. Oggi dunque Forio ribadisce il valore della continuità, di contro alle teorizzazioni di quanti si ostinano a proporre un’idea di “progresso” come risultato di una successione di rotture, di conflitti con il passato. In questa visione, la Forio sacra e profana, vulcanica e tenera, testarda e rissosa, coincide con quella parte di arcaico, di arretrato e ancestrale che si fa contemporanea.
E tutto questo in un tempo in cui viene esaltata la precarietà, l’instabilità, l’utilitarismo, il materialismo, l’egocentrismo, lo sprezzante distacco dal passato. Ecco, per contrapposto, riemergere l’insopprimibile bisogno di comunità, di appartenenza condivisa, di un destino coinvolgente che è sempre rimasto parte della CULTURA UNIVERSALE dell’uomo. La quale non può essere intesa se non come UNIVERSO DI CULTURE LOCALI.
Dovrebbero comprenderlo più facilmente i cristiani: Gesù scelse di venire al mondo in un piccolo popolo, per incarnare la universalità di questa condizione. Come la famiglia è la prima cellula naturale primaria, così le culture locali sono la vera espressione dell’umanità. Ecco allora che il fare memoria, la riattualizzazione del rito, introducendo il riferimento fondante al Logos, alla vita storica di Gesù e della sua Madre, si dimostrano, ancora una volta, un processo di riaccordo che dalla dispersione genera unità. Distruggere la memoria equivale a distruggere la base della propria identità e della propria continuità nel tempo: la memoria non è una cristallizzazione del passato, essa non è passiva, ma costruttiva. Nel momento in cui fa memoria, la comunità ricostruisce, seleziona, sceglie, trasforma, “fa storia” e apre la continuità del futuro. Il passato è sempre con noi perché fare memoria prefigura il futuro, affinché il nuovo che emerge sia libero da ciò che non conta.
Non a caso la Chiesa ha sempre saputo e voluto valorizzare la così detta “pietà popolare”: humus nel quale fiorisce la Liturgia, per dirla con Papa Benedetto XVI. È opportuno ricordare, allora, la dimensione cristologica della devozione all’Addolorata, quest’anno magnificamente espressa dalla presenza della sublime immagine del Cristo morto di Procida. Maria Corredentrice, coinvolta nella Croce di Gesù ricorda nel modo più intimo che il suo dolore non è una rappresentazione SCENOGRAFICA, ma una trasparente, efficace rappresentazione del dolore redentore di Cristo.
Maria ha pianto sul Calvario e continua a piangere lungo la storia per richiamare noi “fedeli infedeli” a non respingere gli inviti divini alla conversione. Ma, come si accennava sopra, questa devozione assume un immenso valore anche antropologico. L’essere umano è, infatti, un essere del bisogno. La sua vita si distende, dal pianto del neonato al rantolo del morente, fra due invocazioni di aiuto.
A tal riguardo è bene anche accennare al ruolo pedagogico della figura dell’Addolorata messa in rilievo dal grande Ernesto De Martino. Senza un modello cui ispirarsi, infatti, tutto lo sforzo della letteratura cristiana antica per cristianizzare il cordoglio funebre sarebbe caduto nel vuoto. Invece, la figura dell’Addolorata immersa nel pianto per la morte del figlio, ma non disperata, perché credeva nella resurrezione, è stata quanto mai efficace per liberare il pianto funebre dal parossismo più o meno accentuato presso i popoli pagani. Oggi, nella società del metaverso e della dittatura dei desideri… la morte è diventata un tabù. Un tema da evitare. Persino certi teologi, arrivano oggi a negare la necessità di rinnovare il Sacrificio della Croce anche perché il peccato non esiste, siamo già salvi, siamo già in paradiso. Andrà tutto bene.
Chesterton lo aveva detto: il credente dei nostri giorni ha sostituito la speranza cristiana con un ansioso ottimismo mondano. “Non vuol più accettare la dottrina cattolica che la vita umana è una battaglia; vuol solo sentirsi dire… che è una vittoria”. Insomma, il cristianesimo senza la Passione.
Gesù senza la croce. Ecco perché anche le due immagini che questa mattina i foriani di ieri, di oggi e si sempre porteranno a spalle per le strade del paese, sono importanti. E “non certo perché si crede che vi sia in esse qualche divinità o potere che giustifichi questo culto o perché si debba chiedere qualche cosa a queste immagini o riporre fiducia in loro, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi che esse rappresentano” (Direttorio su Pietà popolare e Liturgia”). “Un bambino – ha scritto sempre Chesterton- sa che una bambola non è un bambino, con la stessa certezza che un credente sa che la statua di un angelo non è un angelo. Tuttavia entrambi sanno che, in tutti e due i casi, l’immagine ha il potere sia di aprire sia di concentrare l’immaginazione”. Aggiunge C.S. Lewis: “Dio ci sussurra nei nostri piaceri, parla alla nostra coscienza, ma grida nel nostro dolore”. Già, il dolore è “il megafono di Dio”. E quello rappresentato in quelle due statue dell’Addolorata e del Cristo morto ci ricorda che, sebbene la prospettiva resti la gioia senza fine, siamo stati riscattati a caro prezzo. Davanti a quelle immagini, bisogna dunque riacquisire la giusta dimensione di purezza spirituale e di capacità di stupore. Quella stessa purezza, quello stesso stupore della bambina foriana di tanto tempo fa davanti al fiore bianco del suo giardino.