di Emanuele Verde | Se dovessi rendere con uno slogan il senso della mia partecipazione alla marcia per la pace svoltasi sabato scorso a Roma direi: “giù le armi, sui salari”. A coniarlo è stato l’economista Emiliano Brancaccio e personalmente lo declino così: giù le armi, perché con il livello di sofisticazione tecnologico raggiunto dall’industria bellica, la guerra, anche quando condotta con armi convenzionali, senza cioè il ricorso al nucleare, è diventata un’opzione non praticabile.
Il carico di dolore, morte, distruzione è troppo grande, troppo sproporzionato pure quando il conflitto per una delle due parti, come appunto avviene in Ucraina, è di liberazione dall’invasore.
Le notizie che trapelano, devo dire più dalle riviste di geopolitica che dai media tradizionali, raccontano sì di un’avanzata ucraina nel Donbass ma con l’aggiunta di alcuni elementi decisivi che complicano non poco la situazione sul campo: la Russia può interrompere le forniture di gas all’Ucraina; la Russia controlla la centrale di Zaporižžja, la più grande d’Europa, e potrebbe ritorsivamente spegnerne i reattori; la Russia ha alienato le miniere di carbone del Donbass privando l’Ucraina di un’altra fondamentale risorsa energetica; la Russia ha cominciato, tra l’altro in ritardo rispetto a quanto prescre la dottrina militare sulle guerre d’invasione, a bombardare le infrastrutture ucraine (soprattutto rete elettrica e rete idrica), per non parlare dell’utilizzo di bombe termobariche che distruggono le vetrate dei palazzi a decine e decine di metri dal punto di deflagrazione.
Insomma, l’Ucraina va incontro all’inverno senza acqua, senza luce, senza gas e potenzialmente senza cibo.
Stante questo scenario, la “pace giusta” invocata da Zelensky e in Italia sostenuta da un fronte vasto di intellettuali tra cui Sofri, Manconi, Flores D’Arcais, nei fatti rischia di rivelarsi insostenibile per gli ucraini, tenendo ferme in questa sede tutte le considerazioni legate ai rischi di escalation qualora il conflitto dovesse protrarsi ulteriormente. Su i salari: i curatori del dizionario inglese Collins hanno scelto la parola “permacrisis” (crisi permanente) come emblematica dell’anno 2022.
Prima la pandemia, poi la guerra e un senso di incertezza e inquietudine diffuso che ora, con l’inflazione che galoppa a doppia cifra, diventa altra austerità e quindi, altra povertà, altra miseria, ulteriore accentuazione delle diseguaglianze. Non si capisce, però, perché a pagare tutto ciò debba essere sempre e solo chi lavora (compresi gli imprenditori che stanno in azienda fianco a fianco coi dipendenti).
L’inflazione però è anche una straordinaria occasione per la sinistra (già ma quale?) per rovesciare il tavolo e provare a trovare un compromesso più avanzato tra capitale (finanziario) e lavoro.
Questo, in sintesi, lo spirito con cui sono andato a Roma. Nel paese, e Ischia non fa eccezione, c’è voglia di impegno e di politica: stavolta bisogna trovare il modo di non farsi risucchiare – il pericolo è sempre dietro l’angolo – ciascuno nel suo privato. La guerra facciamola sì ma all’inflazione.