attori&spettatori di Anna Fermo | In molti si stanno chiedendo cosa accadrà adesso in “Cosa Nostra” con la dipartita di quello che per oltre 30 anni si è fatto beffa di tutto e tutti, con e senza violenza, ma sempre con l’arma del terrore, caratteristica tipica di un mafioso stragista come lui. Sinceramente, credo che nulla cambierà rispetto ai tempi che stiamo vivendo, per il sol fatto che Matteo Messina Denaro, era in verità già morto da qualche anno. A dirlo non sono le lastre che certificano un tumore al colon ormai al 4^stadio, ma l’ecografia di un uomo che aveva tagliato i suoi legami con chiunque solo perché malato terminale: “Tanto io non è che ho speranze, sempre morto sono… Loro dicono al massimo due anni, ma a due anni non ci arrivo, lo capisco perché sto male”. Le sue previsioni, formulate il 13 febbraio scorso durante un interrogatorio, erano corrette: è morto alle 2 della scorsa notte nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale San Salvatore di L’Aquila, dove era ricoverato da agosto, ma sapeva da tempo che il suo tempo era finito. Perché farsi arrestare altrimenti?
L’ultimo dei Corleonesi, che aveva compiuto 61 anni il 26 aprile non è riuscito a sfuggire al tumore al colon che gli era stato diagnosticato a novembre del 2020, ed è deceduto mentre era sottoposto al 41 bis, da poco più di 8 mesi. Non ha mai parlato né avuto mai intenzione di farlo. Voleva morire riconciliandosi con i suoi familiari più stretti, chiaramente con la madre e la figlia al suo capezzale ed è riuscito anche in questo. Ha fatto ciò che voleva!
“Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante – aveva detto al procuratore Maurizio De Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, che per anni gli ha dato la caccia e alla fine è riuscito ad arrestarlo – voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate…”. Specificando “io non mi farò mai pentito”.
Le condizioni di salute del mafioso si sono di fatto aggravate il 10 settembre fino ad arrivare al coma irreversibile venerdì scorso (22 settembre).
Sui social sono comparsi diversi messaggi di cordoglio: che il «Signore lo perdoni»; «Riposi in pace e in tranquillità». «Condoglianze alla famiglia. Per me un amico d’infanzia poi ognuno di noi fa le sue scelte di vita, comunque non sta a noi giudicare». E poi ancora: «A me dispiace tanto perché io non giudico nessuno se non vedo. A me dispiace tanto sia che è stato preso sia che è morto. Riposa in pace zio Matteo, tranquillo che quasi tutto Castelvetrano è dispiaciuta per la tua morte perché il bene c’è sempre e la morte non si augura a nessuno», scrive un altro utente di Castelvetrano, città che gli ha dato i natali, dove vivono i suoi familiari e dove lui stesso ha vissuto prima di darsi alla latitanza.
Per chi prova pietà c’è chi invece s’indigna al sol pensiero che possa esserci il rischio di mitizzarlo, come il sindaco di Milano, Beppe Sala. «Al di là della pietà cristiana, posso dire che è stato un personaggio tragico nella storia italiana. Spero che queste figure non vengano mai mitizzate e vengano prese nel senso giusto, cioè che sono una sciagura per la nostra società».
Dopo la cattura, Messina Denaro è stato sottoposto alla chemioterapia nel supercarcere dell’Aquila dove gli è stata allestita una sorta di infermeria attigua alla cella. Nei nove mesi di detenzione, il padrino di Castelvetrano è stato sottoposto a due operazioni chirurgiche legate alle complicanze del cancro. Dall’ultima non si è più ripreso, tanto che i medici hanno deciso di non rimandarlo in carcere ma di curarlo in una stanza di massima sicurezza dell’ospedale. Sulla base del testamento biologico lasciato dal boss che ha rifiutato l’accanimento terapeutico, gli è stata interrotta l’alimentazione ed è stato dichiarato in coma irreversibile. Ieri, la Procura dell’Aquila, di concerto con quella di Palermo, ha disposto l’autopsia sulla salma.
Messina Denaro è stato condannato per le stragi del 1992 e del 1993, ma pure per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, anche se – durante l’ultimo interrogatorio – aveva voluto smarcarsi da quello che è senza dubbio uno dei delitti più efferati commessi da Cosa nostra: “Non voglio fare la vittima… Mi possono mettere pure in croce nella vita, ma io il bambino non l’ho ucciso”. E aggiunse: “Non ho più niente da perdere nella vita, anche perché sto perdendo la vita stessa, però desideroso che mi restino i miei principi”.
Era stato lui stesso a raccontare ai pm sia la scoperta della malattia che alla fine lo ha ucciso che “la mia tecnica” per riuscire a sfuggire agli investigatori che per tre decenni gli hanno dato la caccia: “Io avevo una mia tecnica – aveva spiegato il boss – voi avevate una tecnologia inimmaginabile… Io caverna, la tecnologia con la caverna non si potranno mai incontrare e vivevo da caverna: telefonini non ne avevo, non avevo niente, mi dissi: ‘Se mi metto con la modernità, vado a sbattere'”. E’ stata dunque la malattia e non la polizia a costringerlo ad abbandonare la “caverna” e ad iniziare ad usare un cellulare: “Nel momento in cui si va in un ospedale o anche al cinema la prima cosa che chiedono ‘nome, cognome, telefonino’… Allora mi sono fatto il telefonino – raccontò ancora il boss – soltanto per la malattia e sapevo che sarei andato a sbattere, non sapevo quando, ma lo sapevo, perché ho abbassato di molto le mie difese…”. E se non fosse stato per questo, lo disse senza mezzi termini a De Lucia e Guido, “non mi prendevate”. Anche perché “tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché avevo l’aggeggio che le cercava, e non l’avete trovato; e poi perché le riconosco…
Molte di queste telecamere quando le piazzavano c’era un segnale, la presenza di un maresciallo del Ros, c’era sempre lui; appena vedevo lui con 2 o 3 fermi in un angolo, già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo mano…”. “Un dato che, assieme alla capacità di muoversi come un fantasma, quasi di anticipare le mosse degli investigatori, ha permesso di protrarre la latitanza per anni (“quando i carabinieri mi facevano questi trabocchetti, io cercavo di difendermi con i miei modi rurali”)”. Ha negato di aver avuto contatti con rappresentanti delle istituzioni come ha negato anche di essere un mafioso: “Non sono un uomo d’onore, per principio, mi sento un uomo d’onore” e “dentro la mia testa io ho un codice comportamentale… Io non faccio parte di niente, io sono me stesso, ma devo essere un criminale? Mi definisco un criminale onesto”. “Di Cosa nostra sapeva “dai giornali”, così come conosceva Bernardo Provenzano “dalla tv”, anche se poi gli scriveva lettere”. “Ha negato anche di aver partecipato a stragi e omicidi, di aver gestito traffici di droga (“vivevo bene di mio”), di aver commesso estorsioni (“non ne faccio di queste cose”), spiegando che “è da 30 anni che su di me travisano”, ma quando il procuratore gli chiedeva sarcastico: “Lei sarebbe innocente?”, Messina Denaro rispondeva: “No, no, non voglio dire questo, sarebbe assurdo…””.
Di soldi ne ha maneggiati davvero tanti, basta pensare al patrimonio a lui riconducibile sequestrato negli anni dallo Stato e stimato in oltre 4 miliardi. Poi c’è tutto il resto – e gli inquirenti sono certi che questo resto, molto sostanzioso, da qualche parte esista. “Quello che abbiamo investito – disse ancora durante l’interrogatorio ai pm – molto ve lo siete presi – non lei – come Stato, il resto che non vi siete preso un po’ era conservato per viverci noi, siamo una famiglia di circa 30 persone, la metà in carcere, io latitante, aerei, avvocati, ce ne volevano soldi, quindi se ne andavano…”. Alla domanda: “Ha altre cose?”, il mafioso aveva replicato: “La mia vita non è che era solo a Campobello… Queste cose, qualora ce l’avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità…”.
Come abbia vissuto l’ultimo periodo, cioè dopo aver scoperto il tumore, lo ha raccontato lui stesso sempre in quell’interrogatorio: aveva messo in atto la sua ultima strategia per sfuggire alla cattura, quella di essere visibile da diventare paradossalmente invisibile: “Quando ho scoperto che mi restava poco, però mi volevo curare, ho seguito un proverbio ebraico: ‘Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta’. Penso: ‘Ora che ho la malattia non posso stare più fuori e debbo ritornare qua, non posso fare alla Provenzano dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria’, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria ma io devo uscire, devo mettermi in mezzo alle persone… Perché più mi nascondo e più sono arrestato. Ho piantato l’albero in mezzo alla foresta, che erano le altre persone, da quel momento io mi sono messo a fare la vita da libero…”. E aveva aggiunto: “Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, dovete arrestare da 2 a 3 mila persone”, anche perché il mafioso non ha fatto mistero che durante quel periodo giocava a poker, mangiava al ristorante, andava sempre al supermercato, pur sapendo che “andavo a sbattere, ma speravo pure di morire prima…”.
L’arresto del Capo dei Capi chiude dunque solo un’epoca della mafia: quella della sfida allo Stato con le stragi di Chinnici, Falcone e Borsellino; ma non rende giustizia!
Messina Denaro porta con sé tesori e misteri, ed è vero: «Troppo tempo da uomo libero e così poco da uomo in prigione e in mano alla legge», come ha commentato su la Repubblica Giuseppe Cimarosa, parente del boss, rimasto a Castelvetrano rifiutando il programma di protezione.
Ecco, questa è stata la sua ultima beffa, la peggiore di tutte.