venerdì, Dicembre 27, 2024

La pizza napoletana e il Castello Aragonese

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Finalmente la “nostra” pizza ce l’ha fatta, venendo proclamata proprio ieri Patrimonio dell’Umanità nella sessione Unesco svoltasi nella lontana Corea del Sud. E con essa ha trionfato ancora una volta Napoli, la tanto martoriata città italiana che già con il suo centro storico è presente in tale prestigioso elenco di siti unici al mondo, insieme ad altre cinque importanti realtà campane quali la Costiera Amalfitana, il Parco del Cilento, il comprensorio archeologico di Pompei Ercolano e Torre Annunziata, la Reggia di Caserta e il Borgo di Sant’Agata de’Goti.

 

Sembra così strano che una ricetta talmente semplice ma al tempo stesso dal gusto unico ed inimitabile, oggi elaborata anche secondo le più ricercate raffinatezze gourmet e talvolta modificata –per alcuni in meglio, per altri in peggio- nell’elaborazione della pasta (lunga lievitazione, lievito madre etc.) e finanche nel “senza glutine” per i celiaci, spesso martoriata dalla mancanza del forno a legna e dall’ostinazione di pizzaioli “poco napoletani” nel volerne alterare ad ogni costo (o forse per fare di necessità virtù) il processo di preparazione e finanche gli ingredienti, rappresenti non solo un fenomeno apprezzato in ogni parte del mondo, ma soprattutto una fonte di business di sicuro valore per un’autentica moltitudine di aziende. Si tratta molto spesso di multinazionali tuffatesi a capofitto tanto nell’apertura di catene di grande successo (Pizza Hut, dal 1958, conta ben 16.000 locali attivi in 100 diversi paesi al mondo) o nella produzione di pizze surgelate di ottima qualità esportate un po’ ovunque (la Roncadin, in provincia di Pordenone, ne è fulgido esempio).

L’affare-pizza già da tempo è stato fiutato anche dall’estremo oriente. Mia moglie ricorda di averne mangiata una ottima proprio a Tokyo già nei primi anni ‘90; ma come non ricordare Gaetano Fazio, maestro pizzaiolo napoletano ma ischitano d’adozione, che ancora oggi nel suo locale di Via delle Ginestre continua ad ospitare per mesi interi aspiranti pizzaioli giapponesi, coreani e cinesi e che proprio nel paese del Sol Levante è costretto a recarsi anche due volte l’anno per inaugurare nuove pizzerie di suoi allievi o per rendere onore a veri e propri fan club che da anni lo venerano come una star. E dall’estate scorsa ha aperto anche ad Ischia una delle sedi più originali, architettonicamente parlando, del brand tutto napoletano “RossoPomodoro” (anch’esso presente con molti locali in Europa, Stati Uniti, Asia e Medio Oriente), con una sinergia diretta tra il patron Roberto Imperatrice e l’imprenditore ischitano Pietro Lauro, già general manager del Parco Termale Castiglione.

Sorgono spontanee due diverse forme di rammarico che, in qualche modo, smorzano un po’ l’entusiasmo di questa buona notizia: in primis, il dispiacere che nel corso del tempo non si sia riusciti a creare una vera, efficace forma di salvaguardia per la ricetta e la procedura di preparazione della vera pizza napoletana. Anche la nascita della prima associazione che vi puntava (si chiamava proprio Vera Pizza Napoletana, cambiata poi nel tempo in Verace Pizza Napoletana e non chiedetemi il perché), ben oltre trent’anni fa, pur contribuendo alla diffusione mondiale di un messaggio altamente professionale che consentisse a chi lo sposava, rispettando determinate regole, di ottenere un prodotto di gran lunga superiore a molte “fetenzie” in circolazione, non è comunque riuscita ad arginare le tantissime “libere interpretazioni” che oltraggiano letteralmente questa pietanza. Per ricette molto ma molto meno diffuse, ma anche –per carità- a supporto di apprezzatissime e conosciutissime eccellenze come il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma, sono nati veri e propri consorzi di tutela che impediscono a chiunque non risponda a determinate caratteristiche di fregiarsi di tali denominazioni a supporto del proprio prodotto. Chissà che proprio la sua stessa universalità abbia reso impossibile questo importante risultato e, se vogliamo, oggi il riconoscimento ottenuto può valere quale giustificazione di tale insuccesso. Come dire, la pizza è veramente di tutti, non più solo di Napoli e dei Napoletani.

L’altro rammarico, invece, è quello reclamato dalla mia solita indole ischitana: credo che il nostro Castello Aragonese, così come l’unicità della nostra Isola quale sito termale d’eccellenza per numero di acque e diversità delle proprietà minerali e terapeutiche delle stesse, dovrebbero (non “potrebbero”) rientrare a pieno titolo nel novero delle eccellenze campane riconosciute dall’Unesco. La prima lancia, proprio per il Castello, la spezzò l’europarlamentare Barbara Matera, su suggerimento del suo attuale collega (all’epoca consigliere regionale campano) Fulvio Martusciello, durante la presentazione di un libro al Bar Calise di Ischia, circa otto anni fa. Più di recente, nel 2015, Vito Iacono –consigliere di minoranza a Forio- propose addirittura al Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca di lavorare per l’inclusione del trittico delle isole partenopee tra i siti riconosciuti, al pari delle Eolie (che lo sono da ben diciassette anni), sebbene –manco a dirlo- la sua istanza è rimasta finora lettera morta.

Naturalmente la domanda è d’obbligo: e se ciò accadesse, Ischia e gli Ischitani sarebbero pronti ad affrontare un riconoscimento del genere con il giusto senso di responsabilità?

Sai che c’è di nuovo? Iammece a mangià na pizz, che è meglio! E… buona “prima festa di Natale” a tutti.

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