domenica, Novembre 17, 2024

La strategia del Comune di Serrara Fontana per condurre al dissesto “La Torre”

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Le accuse mosse dalla curatela fallimentare hanno trovato riscontro nel processo. «Un’attività antigiuridica di eterodirezione abusiva perché sostanzialmente diretta a non assumersi le proprie responsabilità di socio unico che aveva un'unica alternativa per salvare la società: la ricapitalizzazione, se non portare i libri in tribunale». L’affrettata e dannosa messa in liquidazione

La sentenza del Tribunale di Napoli Sezione Specializzata in Materia d’Impresa nel giudizio promosso dalla curatela fallimentare non fa sconti al Comune di Serrara Fontana evidenziandone le responsabilità nel fallimento de “La Torre”.
Il collegio ha ritenuto che la curatela, svolgendo l’azione ex art. 2497 c.c. nei confronti del Comune e agendo nell’interesse dei creditori sociali della fallita, «abbia fornito sufficiente e convincente dimostrazione che il controllo societario determinato dal ruolo di socio unico della fallita si sia concretizzato in un’attività di direzione e coordinamento in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale che ha condotto all’irreversibile dissesto e decozione della partecipata».

Una “strategia distruttiva”, quella dell’Ente, in quanto «la violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale della controllata si è estrinsecata nella scelta strategica di non procedere più almeno dal 2007 a coprire le perdite accumulate dalla società fino a non approvare più i bilanci dal 2010 che avrebbero palesato lo stato di erosione del capitale sociale (che il CTU ha fatto risalire all’anno 2007 con le necessarie rettifiche dei bilanci), imponendo l’intervento finanziario per salvaguardare la continuità aziendale.

E tanto è stato fortemente voluto dal socio unico che in tal modo ha continuato ad assicurare il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani nonché gli ulteriori servizi pubblici affidati alla partecipata facendo ricadere gli oneri economici sulla fallita, perseguendo pertanto il proprio interesse a discapito della partecipata sempre più onerata di servizi e di debiti, senza nemmeno riconoscere l’aggiornamento delle tariffe del servizio utile a coprire gli ingenti costi e le relative perdite come rilevate dal CTU sin dal 2004, ad appena due anni di distanza dalla costituzione della società.
Inoltre, il costante incremento dei servizi affidati alla partecipata non si è accompagnato ad alcun reale strumento di rafforzamento patrimoniale e finanziario della società, invero i compensi offerti si sono rivelati antieconomici, contribuendo allo stato di dissesto societario palesato dalle sistematiche perdite accumulate sintomatiche dell’incapacità dell’ente controllante di garantire l’obiettivo della economicità della gestione».

LA MANCATA RIMOZIONE DEL MANAGEMENT
Le colpe dell’Ente sono palesi: «Né tantomeno è sostenibile che la scelta strategica di non mantenere l’obiettivo dell’economicità fosse prerogativa soltanto dell’organo amministrativo della controllata, poiché la convergenza delle scelte amministrative palesatasi nelle condotte di mala gestio dell’organo amministrativo non impedite dall’organo sindacale presuppongono un indirizzo di fondo condiviso con il socio unico, che non si allarma nemmeno quando lo stato di decozione della fallita è evidente anche all’opposizione politica in seno al consiglio comunale.
Pertanto, l’esercizio abusivo dell’attività di direzione unitaria si è manifestato anche nella scelta di non rimuovere gli organi sociali nonostante gli atti di mala gestio che sono stati vagliati nel presente giudizio».

Una strategia fallimentare condivisa: «Qualora l’ente comunale socio unico avesse voluto improntare la strategia di eterodirezione nel rispetto di una corretta gestione imprenditoriale era tenuta a rimuovere il management societario della fallita che aveva inanellato una serie di condotte illecite produttive di pesanti conseguenze pregiudizievoli sul patrimonio della fallita per condurla al dissesto. Al contrario, l’opzione di lasciare al comando sin dalla costituzione della società un board amministrativo palesatosi inadeguato milita nel senso di ritenere che le strategie amministrative seppure fallimentari fossero oggetto di indirizzo e condivisione dell’ente comunale partecipante».
Analogamente si censura «la decisione di non sanzionare con la revoca dall’incarico l’organo amministrativo che aveva fatto prescrivere un credito verso l’utenza intorno al mezzo milione di euro senza nemmeno provvedere all’emissione delle fatture per la riscossione della posta creditoria in mancanza di atti interruttivi della prescrizione o che non si era attivato nemmeno per recuperare crediti verso l’ente comunale risalenti agli anni 2003-2004 sui quali successivamente è maturato il termine di prescrizione».

LA MANCATA APPROVAZIONE DEI BILANCI
Un fallimento voluto, in sostanza: «Non vi è dubbio che l’ente comunale non era tenuto a coprire le perdite sempre più ingenti della partecipata, ma da quando dal 2010 impediva in qualità di socio unico di approvare i progetti di bilancio predisposti dall’organo amministrativo che mostravano lo stato di assoluta antieconomicità del proseguimento dell’attività imprenditoriale della controllata, tale condotta si connotava come di abusiva eterodirezione, dal momento che consentiva la continuazione di una realtà imprenditoriale in stato di dissesto, laddove avrebbe avuto l’obbligo, non volendo procedere alla doverosa capitalizzazione, di far dichiarare almeno l’autofallimento e così non aggravare il dissesto.
Depone nel senso di intendere anche tale condotta come sintomatica di abusiva eterodirezione la stessa forma scelta dall’ente comunale per l’esercizio dello svolgimento di sevizi pubblici in favore della collettività. Se l’ente territoriale decide di ricorrere allo schema del “in house providing” per la gestione dei servizi pubblici ed intende farlo nel rispetto di una corretta e prudente gestione societaria non può sistematicamente lasciare andare deserte le assemblee convocate per l’approvazione di bilanci che riportano il continuo aggravarsi delle perdite.

In buona sostanza, la decisione di non approvare bilanci (peraltro clamorosamente artefatti nella parte in cui non riportavano le sanzioni ed interessi della cospicua debitoria fiscale aggravatasi negli anni e non prevedevano fondi di svalutazione per i crediti non riscossi) che comunque riportavano perdite sempre più consistenti si configura come un pesante condizionamento sulla stessa gestione sociale, tenuta a proseguire l’attività nonostante il carattere antieconomico per il volere incontrastato della società dominante e senza alcuna speranza di risanamento aziendale, in difetto del necessario apporto di liquidità».

LA DELIBERA DI RICAPITALIZZAZIONE REVOCATA
Anche un dissesto annunciato, riportando la sentenza le iniziative e l’allarme lanciato dall’opposizione. E si punta il dito sulla «scelta dell’ente comunale controllante che lascia andare deserta l’assemblea del 28.12.2011 convocata per il ripianamento delle perdite dell’anno 2010 e per il conferimento di beni. Soprattutto in considerazione della circostanza che a fronte delle perdite già maturate al 2010 e che avevano ridotto il patrimonio netto negativo ad appena 3000 euro, nell’anno 2011 si registrano ulteriori perdite per l’ammontare di oltre 125 mila euro.
La cennata strategia – diretta a tenere in vita per lo svolgimento di servizi pubblici una realtà imprenditoriale perennemente in perdita e che abbisognava soltanto di essere patrimonializzata per evitare l’irreversibile stato di decozione a cui è stata volutamente condannata la società dominata – trova piena conferma nella delibera con la quale il Consiglio Comunale prende atto della messa in liquidazione.

Dal verbale della delibera del 27.12.2012 si evince che di fronte al bivio in cui si trovava il socio unico se deliberare lo stato di scioglimento oppure ricapitalizzare come già deliberato in data 22.12.2011 (delibera che veniva frettolosamente revocata e che attestava la piena consapevolezza che l’unico salvagente per una società già in stato di insolvenza non poteva essere che la capitalizzazione, sebbene nella forma sempre piuttosto discutibile del conferimento di beni di proprietà dell’ente comunale), la scelta cadeva sulla messa in liquidazione, nonostante i consiglieri di opposizione avessero proposto un emendamento alla delibera in cui si affermava testualmente l’esigenza di “prendere atto che la società La Torre versa da anni in uno stato di insolvenza ed essendo priva del durc non è nelle condizioni di operare e la situazione impone di depositare al tribunale fallimentare le scritture contabili per la nomina del curatore fallimentare”.
Vi è di più perché l’opposizione si mostra più diligente nella valutazione dello stesso esito della liquidazione nella parte in cui si legge sempre nel medesimo emendamento che “la liquidazione comporterebbe solo un aggravio dei costi che non potrebbero essere riconosciuti”».

LE DICHIARAZIONI DELL’AMMINISTRATORE
«Gli eventi futuri e facilmente prevedibili che hanno condotto alla decozione della partecipata trovano pertanto la propria giustificazione causale nell’esercizio dell’attività di eterodirezione in spregio ad una corretta gestione imprenditoriale». Una eterodirezione «che può materializzarsi anche in condotte omissive che siano tali da palesare una precisa strategia che condiziona, come nella fattispecie, non soltanto la gestione sociale della eterodiretta ma contribuisce ad influire anche sulla continuità aziendale e quindi sull’esistenza stessa dell’ente dominato».
In proposito il collegio ribadisce «che la condotta di non approvare i bilanci dal 2010 che avrebbero sebbene artefatti palesato lo stato di insolvenza della società (come peraltro denunciato dai consiglieri comunali di opposizione, e quindi da una voce interna allo stesso socio unico) come quella di optare per un’affrettata liquidazione piuttosto che dare esecuzione ad una delibera già assunta di ricapitalizzazione (sebbene sempre nelle modalità di mero conferimento di beni che non consentivano una reale patrimonializzazione, ma almeno avrebbero potuto salvaguardare la continuità aziendale) sono prove inconfutabili dell’esercizio di un’attività antigiuridica di eterodirezione abusiva perché sostanzialmente diretta a non assumersi le proprie responsabilità di socio unico che aveva un’unica alternativa per salvare la società: la ricapitalizzazione, se non portare i libri in tribunale».

A riprova vengono richiamate le dichiarazioni dell’allora amministratore unico alla curatela fallimentare in merito alla mancata approvazione dei bilanci. De Dato «ha candidamente ammesso che “il Comune lasciava che le assemblee convocate rimanessero deserte”.
Ed invero la parte attrice ha poi dedotto che quando nel 2008 si è proceduto a modificare lo statuto societario della fallita introducendo l’obbligo del “controllo analogo” il vero obiettivo era quello di evitare l’assoggettabilità al fallimento (in ragione delle oscillazioni giurisprudenziali quanto alla dichiarazione di fallimento delle società in house), ad ulteriore riprova che il socio unico avrebbe fatto di tutto pur di tenere in piedi una società che garantiva un servizio pubblico a discapito della integrità patrimoniale della stessa affogata dalle perdite, ma invero a detrimento ultimo della stessa comunità locale, poiché inevitabilmente il fallimento della partecipata ha rappresentato un costo non recuperabile in primis per l’utenza comunale».

LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO
Per il Tribunale «non vi è dubbio che da quando è stato aggiornato lo statuto con la previsione di un controllo analogo, tale potere di direzione unitaria e di supervisione da parte della controllante non è stato esercitato nel rispetto di una corretta gestione societaria, poiché l’ente comunale ha abdicato a svolgere il ruolo di socio realmente interessato all’obiettivo dell’economicità della gestione e pur sapendo dello stato di insolvenza in cui la stessa versava già dal 2010 (ma che invero risaliva al 2007 come accertato dal CTU) ha proseguito nel lasciare andare deserte le assemblee convocate per far approvare i bilanci e non solo per mera negligenza ma per una strategia sottesa ad occultare la reale situazione economica e finanziaria che imponeva l’autodichiarazione di fallimento come denunciato dall’opposizione consiliare già nel 2012».

Le colpe del Comune sono state dunque provate emergendo «una congerie di elementi probatori comprovanti l’antigiuridicità dell’eterodirezione poiché volta al perseguimento dell’interesse del socio unico diretto a mantenere in vita una società controllata in stato di insolvenza fino a condurla al dissesto e senza assumere alcuna condotta idonea quantomeno a non aggravare lo stato di decozione producendo un’irrimediabile pregiudizio tra gli altri ai creditori sociali della stessa».
E si arriva alla quantificazione del danno: «Pertanto si ritiene che la condotta di abusiva eterodirezione abbia cagionato un danno – causato dall’illegittima prosecuzione dell’attività sociale in stato di erosione del capitale sociale e pertanto in violazione della doverosa gestione conservativa che ha aggravato progressivamente lo stato di dissesto – che è stato liquidato in via equitativa con il criterio della differenza dei netti patrimoniali aggiornato all’attualità per le motivazioni surriportate nella somma di euro 1.704.559,28. A tale posta risarcitoria deve essere aggiunta la corresponsabilità dell’ente comunale per la perdita dei crediti verso l’utenza che ha prodotto un danno al patrimonio della controllata pari ad euro 446.491,25». Accogliendo l’eccezione di compensazione proposta dal Comune in riferimento al credito maturato nei confronti della controllata e già ammesso al passivo per l’ammontare di 970.727,12 euro. Da questo calcolo, l’Ente è stato infatti condannato a pagare 1.180.323 euro oltre rivalutazione e interessi.

2 – continua

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