Guido Compagna* | Io dal Pd sono uscito alla vigilia del voto del Senato sulla riforma costituzionale. La quale – credo – in combinato disposto con l’Italicum, comporta non la fine della democrazia, ma la sua progressiva decadenza. E’ stata la mia una decisione che ho preso con grande sofferenza. Le battaglie politiche – ne sono tutt’ora convinto – devono prima di tutto svolgersi all’interno e non fuori dei partiti, ma a tutto c’è un limite. Altrettanta amarezza ha suscitato in me la decisione della minoranza del Pd di votare a favore della riforma costituzionale ritenendo di aver ottenuto una riduzione del danno che dovrebbe consentire al cittadino elettore di indicare i nomi dei consiglieri-senatori che le regioni dovranno eleggere. A me sembra un pasticcio complicato di difficile applicazione. Vedremo.
Naturalmente dal Pd me ne sono andato con discrezione, limitandomi a restituire la tessera, convinto come sono che le tessere sono come le bandiere e comunque si rispettano e non si stracciano. Al tempo stesso non ho alcun motivo di rancore verso i compagni della minoranza che hanno scelto di votare la riforma e restare nel partito. Considero il loro non un tradimento, ma un grave errore politico. E comunque mi auguro che continuino la propria battaglia all’interno del partito restando punto di riferimento per coloro che, come me, non se la sono sentita di restare in quello che, sotto la leadership renziana, appare molto lontano dall’idea originaria del Pd, sia per quanto riguarda la linea politica che le garanzie di una regolare vita democratica interna, la quale al momento, nel migliore dei casi, va avanti con direzioni lampo last minute e con commissariamenti prolungati nei territori.
Il principale motivo per il quale ho lasciato il Pd è che considero quello di Renzi un partito invotabile e considero al tempo stesso incoerente continuare a stare in un partito che non potrei votare e la cui linea politica per esempio, sulle riforme istituzionali, considero dannosa e pericolosa, e quindi da contrastare con la massima energia. Ci sono ora due domande alle quali devo provare a rispondere.
La prima domanda (la più facile) è: se si votasse domani a chi darei il mio voto? Credo che proverei a dare un voto di prossimità. Quindi sceglierei un raggruppamento di sinistra che abbia una storia di sinistra e stia il più possibile alla larga delle pulsioni populiste (alla Grillo alla Berlusconi, ma anche alla Renzi). Qualcosa sulla scheda elettorale dovrei trovarla.
Ma per un signore alla soglia dei 70 anni, che da quando ne aveva 15, si occupa di politica c’è un’altra domanda molto più insidiosa: quale può essere la forza politica in grado di rappresentare meglio la sinistra riformista nel nostro Paese? Provo a rispondermi.
Io non credo che la soluzione sia una sorta di Linke italiana. Così come non ho mai creduto che nel Regno unito la soluzione alla degenerazione del partito laburista nel blairismo fosse la nascita di un altro partito a sinistra, bensì, come sta accadendo, il ritorno dal blairismo alla storia e alle radici del Labour.
E qui, venendo alle vicende nazionali, torna e resta in campo il Pd con la sua pur breve storia. Anche quello voluto da Veltroni e Rutelli. Il quale voleva essere la sintesi dei tanti riformismi italiani. E non come qualcuno ha detto una sorta di unificazione tra la sinistra democristiana e gli ex comunisti. Nel Pd trovavano un punto di equilibrio le tante storie della sinistra italiana. Che è anche una storia di tante eresie. Si pensi alla sinistra liberale, al partito d’azione, ai repubblicani. Ai socialisti di Salvemini e Bissolati. E alle tante culture politiche (da Dossetti a Moro, da De Mita a Prodi). E non fu, a suo modo una robusta eresia di massa, anche il Pci togliattiano in grado di tener testa (nei limiti di un accorto e coraggioso realismo politico) persino all’ortodossia di Mosca? Quell’ortodossia che è crollata in frantumi a Berlino, accelerando il percorso verso il socialismo europeo (vedi il bel libro di Napolitano “dal Pci al socialismo europeo”) che i comunisti italiani avevano già avviato sin dalla svolta di Salerno.
Possibile che la sinistra democratica riformista debba buttare al vento questo enorme patrimonio di cultura politica perchè un brillante (?) giovanotto di Rignano si è messo in testa che per cambiare l’Italia deve fare il partito della Nazione con Verdini e la volenterosa Lorenzin?
E allora? Io credo che la soluzione per la sinistra resta quella di “rifare” il Pd. Il quale dovrà essere l’esatto contrario del futuribile partito della Nazione. E quindi dell’attuale Pd Renzi. Si può fare? Non lo so. Ma ci si può provare. Ritrovando e riannodando il filo della nostra storia. Quando io ero poco più che un bambino, Giorgio Amendola spesso concludeva così i suoi comizi: “Cari compagni, ora al lavoro e alla lotta. E chi ha più filo tessa”.
Guido Compagna, 69 anni, giornalista, ha lavorato per 40 anni a “ Il sole-24 ore”.