Esiste l’anno perfetto? E’ un quesito che dovremmo porci ogni qualvolta ci accingiamo ad accogliere il nuovo anno. Devo alla mia amica Linda G. l’ispirazione di questo editoriale, perché il suo post dedicato al 2018 è stato oltremodo simpatico (i suoi, devo dire, lo sono praticamente sempre). Linda, infatti, vi racconta una serie di cose positive, come l’arrivo del suo nipotino (che chiama affettuosamente “vitellozzo”), rivelando che “ho scoperto nuove prospettive e riconsiderato vecchi stereotipi. L’amore cambia modalità, talvolta, ma può restare se c’è onestà. Le preoccupazioni caricano testa e spalle, ma l’istinto di sopravvivenza è ancora forte e fiero. E la gratitudine sempre in pole. Non so cosa sarà di me, in effetti… E si, al 2018 ci voglio bene, ma va lasciato andare e accompagnato anche lui con un grazie sentito. Grazie, dunque, a tutti coloro che ci sono stati e non: anche le assenze sono presenze preziose di insegnamenti.”
Anche un passaggio del recente post augurale di fine anno di Giosi Ferrandino (da cui escludo volontariamente la parte in politichese) non mi è dispiaciuto. Nel dolore generato dalla perdita del padre, l’eurodeputato ha scritto: “Non dobbiamo avere paura di mostrare i nostri sentimenti, come valori attraverso cui migliorare la nostra società… in un’epoca in cui gli ideali sembrano essere diventati una brutta parola ma che, invece, continuano a essere fondamentali affinché ognuno di noi possa orientarsi in una società che si muove veloce come non mai e che cambia alla velocità di un bit, affinché ognuno possa scegliere la persona che vuole essere…”. Un concetto sano, che al di là della necessità di una rilettura per evitare qualche errorino che mi son permesso di non riprodurre, ben si abbina all’argomento trattato in questa sede.
Potrei star qui ad elencare una serie di personali accadimenti del 2018 degni d’essere menzionati a prescindere dalla loro portata, positiva o negativa che sia; ma se mi fermassi a tentare di metter giù un bilancio da confrontare con quello degli anni precedenti, mi renderei facilmente conto (e credo che la cosa sarebbe altrettanto agevole per chiunque di Voi) che cambierebbe poco o nulla, escludendo, ovviamente, quelle circostanze di rara gravità che, al pari delle “sopravvenienze passive”, non possono e non devono rientrare nell’ordinaria amministrazione.
In fin dei conti, il concetto è decisamente semplice: ogni anno porta con sé, in modo inevitabile, gioie e dolori, paure e certezze, soddisfazioni e delusioni. E l’unica strada per viverlo nel migliore dei modi è quella di ottimizzare al massimo la nostra qualità della vita, impegnandoci a mettere in campo tutte le nostre forze per ottenere il meglio da ciascuno dei nostri giorni, invocando –per chi ci crede- l’aiuto del Buon Dio, essenziale ed insostituibile, e facendo leva sulle nostre capacità e su quelle di chi ci ama o ci coadiuva.
I luoghi comuni, rispetto ai ritmi forsennati cui la nostra vita ci sottopone, non trovano più spazio. E chi si ostina a porli in essere, a mio avviso, vive fuori dal tempo. Oggi è proprio un briciolo di concretezza a mancare nel piatto di minestra che ciascuno di noi, con ingredienti diversi e con metodi culinari altrettanto eterogenei, mette in tavola ogni giorno per sé e la propria famiglia. Si perde ancora troppo tempo a correre dietro gli stereotipi di una società che continua ad allontanarsi dalle sue esigenze più impellenti per far posto ad un contesto voluttuario, scadente e dannoso per tutti, in particolare per i nostri giovani, nel desiderio spasmodico di allinearsi a mode e correnti di pensiero che, seppur lontane dalla nostra realtà, oggi rappresentano modelli ispiratori fin troppo comodi e facili da seguire.
Come ha scritto in maniera eccellente Aldo Grasso sul Corriere della Sera, “la cultura ha rinnegato la vocazione a far passare il tempo in maniera gradevole per torturarci facendoci sperare che finisca il prima possibile”, evidenziando le gravi contraddizioni della festa di fine anno in diretta tivù da Matera, caratterizzata da contenuti particolarmente “terra terra” e, quindi, in netto contrasto con la nuova Capitale Europea della Cultura.
Ad Ischia, tutto questo è fin troppo accentuato. Ed è proprio la nostra realtà insulare a rischiare di amplificarne gli effetti negativi che, se non irrimediabili, possono senza dubbio comportare ulteriori rallentamenti della nostra già troppo lenta realtà rispetto al resto della “nazione che funziona”. Il futuro dei nostri giovani è affidato, nella maggior parte dei casi, alle scelte incompetenti ed irresponsabili di personaggi in cerca d’autore (non solo politici, s’intende: anche genitori, educatori e burocrati di varia natura) ai quali le vere priorità interessano quanto l’amicizia di un topolino ad un elefante. E se tutto ciò resta grave di per sé, ovunque accada, in un piccolo centro come il nostro sono di gran lunga probabili le forme di grave “implosione” a cui si rischia di andare incontro.
In definitiva, amici, l’anno perfetto non esiste: non lo è stato quello appena trascorso e, con giustificata certezza, non lo sarà neppure quello appena cominciato. Per cui, come saggiamente ha scritto Linda, limitiamoci a salutare con rispetto gli ultimi trecentosessantacinque giorni, affidando al buon senso di tutti ed alle nostre capacità personali la speranza di momenti sempre migliori nell’anno che verrà. Un po’ come il giro in jet sky nella baia di Miami che l’altroieri, insieme ai miei figli e a mio cugino Vincent, in una sola ora mi ha sorprendentemente riportato indietro di un quarto di secolo in uno dei periodi più belli della mia vita. Nonostante oggi, come tutti Voi, io sia di nuovo qui a fare i conti con la realtà.
Buon 2019, Ischia!