giovedì, Dicembre 5, 2024

L’educazione al dolore

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Questo pezzo è dedicato a mio zio Tonino Conte, già dimostrazione vivente di quanto sia raro ma ancora possibile, per un uomo, ricevere rispetto, affetto ed amicizia in modo totalmente disinteressato.

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Davide Conte | Due figli con caratteri (non solo somatici) del tutto diversi tra loro, accomunati semplicemente dall’amore reciproco e da un imprinting che –almeno si spera- possa rendere crescente e duratura la loro maturità, rappresentano talvolta anche per un quasi cinquantenne come me il viatico migliore verso la comprensione della realtà ed il modo diverso di riuscirla ad affrontare.

I ben sei lutti in undici mesi che hanno colpito la mia famiglia in alcuni dei suoi affetti più cari, mi hanno portato ad osservare, grazie a loro due, quanto sia difficile rapportarsi alla durezza di certi episodi per un adolescente e quanto altrettanto complicato sia per lui accettare la privazione da un giorno all’altro del poter contare, in guisa maggiore o minore, su persone o cose ritenute di fondamentale importanza. Pensare, infatti, che il concetto di “perdita” possa essere circoscritto alla morte è oltremodo riduttivo: un amore, un oggetto, un valore, finanche una semplice consuetudine che viene meno o un trasloco forzato da una casa all’altra, possono parimenti rappresentare una fonte di (apparentemente) irrimediabile privazione.

Quando persi mio nonno Antonio (senza dubbio la mia figura di riferimento per eccellenza) non avevo ancora compiuto otto anni. Fu un dolore incommensurabile che mi lasciò sprofondare in un senso di smarrimento che ho subito a lungo e che ho rivissuto solo a distanza di anni, quando alcuni episodi del tutto imprevedibili mi costrinsero con non poca sorpresa a rivisitare in brevissimo tempo i gradini della scala dei valori occupati dalle persone più vicine a me. La gravità di tale perdita fu senz’altro amplificata dall’evento assolutamente inatteso e dalla conseguente incapacità di prepararmi al suo accadimento; e molto tempo dovette passare prima di metabolizzarlo adeguatamente.

Non intendo calarmi nei panni dello psicologo, ci mancherebbe, né tampoco tediarVi con esperienze del tutto personali o con argomenti di scontata tristezza; ma credo che una sorta di “educazione al dolore” potrebbe a giusta ragione trovar posto nella pratica didattica dei nostri giovani. Così come il sesso, il senso civico, la politica, la religione, il rispetto e la disciplina, argomenti importanti per un futuro cittadino che si rispetti ma non tutti oggetto di adeguato approfondimento nell’ambito scolastico e familiare, anche il doman senza certezza di antica memoria medicea potrebbe essere adeguatamente affrontato per far capire ai maggiorenni del futuro quanto sia importante essere consapevoli che tutto, prima o poi, potrebbe venire a mancare e, spesso, senza giustificato motivo. E quando parlo di “tutto”, ovviamente, non mi riferisco solo alla scomparsa inaspettata di una persona cara, ma anche a quanto potrebbe accadere ad una famiglia in sventura, economicamente parlando, il cui tenore di vita verrebbe a ridimensionarsi in modo più o meno rilevante e con tutte le limitazioni e le ricadute che gli anelli più deboli della catena (nel caso di specie, i figli) sarebbero costretti a sopportare più di quelli temprati.

C’è da dire che se la vita rappresenta una serie continua di occasioni per imparare e, di conseguenza, crescere, gli esseri umani di qualsiasi età scoprono/presentano sovente diverse forme di egoismo. E’ noto quello dei neonati, che associano l’importanza di chi li circonda al soddisfacimento dei propri bisogni; gli stessi adolescenti, in alcune fasi, pongono addirittura i genitori e la famiglia in secondo piano, qualora questi non rispondano ai loro disegni; e ancor più spesso si riscontra quello degli anziani, che nella maggior parte dei casi più riescono ad essere egoisti, più serena e soddisfacente è la loro esistenza, anche se spesso in maniera inversamente proporzionale a quella dei loro congiunti/conviventi.

E se siamo attenti, all’assoluta naturalezza nel perdere, prima o poi, qualcosa di importante, si contrappone un risultato che sa di incredibile: riflettendoci, noi umani non soffriamo tanto per chi o ciò che non c’è più e del perché o di cosa lo abbia allontanato da noi, bensì della mera “mancanza” a nostro danno. E’ altrettanto chiaro che tutto questo non può essere risolto semplicisticamente con un retorico ed inutile “la vita continua”. Ciononostante, il confronto con esperienze in grado di illuminare il cammino di chi è meno avvezzo a certi episodi, portandolo ad incorrere meno possibile nei classici incidenti di percorso che possono segnarlo per sempre, specie in gioventù, potrebbe rappresentare un momento prezioso per chiunque, genitori compresi, ponendo specie questi ultimi nelle condizioni di poter interpretare al meglio il ruolo da ricoprire ed i comportamenti da adottare nell’ambito della propria famiglia, allorquando il mare della navigazione quotidiana diventi oltremodo periglioso.

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