E’ andata ancora una volta male al Consorzio “Nestore” che fino a giugno 2020 aveva gestito “Villa Mercede” e che aveva richiesto all’Asl Napoli 2 Nord un incremento del corrispettivo per gli anni di gestione dal 2012 al 2020, negato dall’Azienda Sanitaria. E anche il Tar gli ha dato torto, respingendo il ricorso in quanto infondato.
Questo capitolo della “guerra” dinanzi alla giustizia amministrativa tra “Nestore Consorzio di Cooperative Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus” e Asl verteva sull’annullamento della nota del 15 giugno 2021 con cui l’U.O.C. Acquisizione beni e servizi dell’Azienda Sanitaria aveva respinto l’istanza «di revisione periodica del corrispettivo pattuito nell’ambito del contratto di appalto sottoscritto in data 30.7.2012 con oggetto l’affidamento del servizio di gestione della Residenza Sanitaria assistenziale (RSA) e del servizio semiresidenziale del centro diurno anziani (CDA) di Serrara Fontana per un periodo di anni 5, proseguito fino al 30.6.2020».
Il rigetto della revisione dei prezzi da parte dell’Asl era stato motivato da tre circostante: «I) quanto all’annualità 2012, che la revisione prezzi non potrebbe che riguardare le annualità successive alla prima; II) quanto alle annualità 2013 – 2014, che il diritto di credito sarebbe prescritto per decorso del termine di prescrizione quinquennale in quanto la richiesta di revisione sarebbe pervenuta all’amministrazione solo il 1.7.2020; III) quanto alle annualità 2015 – 2016, l’A.S.L. avrebbe patito un danno patrimoniale in relazione a vicende per le quali pende procedimento penale in cui si è costituita parte civile; IV) per le annualità 2017 – 2020, al contratto è stata applicata la spending review con riduzione concordata del 5% del canone mensile inizialmente pattuito che eliderebbe la revisione richiesta».
LA SPENDING REVIEW E IL PROCEDIMENTO PENALE
Il Consorzio da parte sua lamentava «che gli aumenti esponenziali dei costi relativi ai beni e ai prodotti occorrenti per il regolare espletamento del servizio nonché l’aumento contrattuale del costo del personale avrebbero inciso negativamente sull’equilibrio contrattuale ed avrebbe patito l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione a fronte di un corrispettivo che è rimasto immutato nel tempo».
Invocava l’applicazione della norma in materia di adeguamento prezzi prevista dal vecchio Codice degli appalti, vigente al momento della sottoscrizione del contratto, «sostenendone la sua portata imperativa e lamentando, di conseguenza, la mancata attivazione dell’obbligatorio meccanismo revisionale».
Tre i motivi a sostegno del ricorso, ad iniziare appunto dalla pretesa violazione «dell’art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006 in quanto, al contrario di quanto sostenuto dall’intimata azienda sanitaria in sede di motivazione del provvedimento impugnato, alcuna prescrizione sarebbe maturata in relazione al diritto di revisione avanzato, stante l’intervenuta interruzione del detto termine attraverso le richieste avanzate negli anni 2015, 2017 e 2020».
Per rintuzzare le tesi dell’Asl con il secondo motivo si censurava «la parte motiva del provvedimento impugnato in cui l’amministrazione invoca la non debenza delle somme richieste per il periodo contrattuale 2017-2020 in conseguenza dell’applicazione della c.d. spending review; al riguardo il ricorrente evidenzia che l’inapplicabilità della clausola di revisione del prezzo prevista ex lege potrebbe essere limitata al solo anno 2017 ma si profilerebbe comunque dovuta per gli anni 2018-2020».
Infine si sollevava il vizio del provvedimento impugnato «nella parte in cui sancisce l’inapplicabilità della revisione dei prezzi al contratto de quo per gli anni 2014-2015-2016, stante la pendenza di un procedimento penale, evidenziando l’indipendenza esistente tra i giudizi pendenti in sede penale, civile ed amministrativa».
IL VECCHIO CODICE DEGLI APPALTI
L’Asl, costituitasi in giudizio, si è vista dare ragione dal collegio della Quinta Sezione.
La sentenza spiega perché il ricorso è infondato. Evidenziando innanzitutto che l’art. 115 del vecchio Codice degli Appalti prevede che «Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati» indicati sempre dalla normativa.
In particolare: «La sezione centrale dell’Osservatorio (dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) determina annualmente costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura in relazione a specifiche aree territoriali, facendone oggetto di una specifica pubblicazione, avvalendosi dei dati forniti dall’Istat, e tenendo conto dei parametri qualità prezzo di cui alle convenzioni stipulate dalla Consip».
Ancora: «Al fine della determinazione dei costi standardizzati, l’Istat, avvalendosi, ove necessario, delle Camere di commercio, cura la rilevazione e la elaborazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni aggiudicatrici, provvedendo alla comparazione, su base statistica, tra questi ultimi e i prezzi di mercato. Gli elenchi dei prezzi rilevati sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana…».
L’INDICE FOI
Qui il collegio rileva che, «come noto, la disciplina surrichiamata non è mai stata attuata nella parte in cui prevede l’elaborazione da parte dell’Istat di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi e la lacuna è stata colmata dalle Amministrazioni mediante il ricorso all’indice Foi». Ovvero gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie, operai e impiegati.
Spiega il Tar: «In merito a tale prassi si è pronunciata con orientamento consolidato la giurisprudenza amministrativa, affermando che l’utilizzo dell’indice Foi non esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali, che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale».
Il passaggio successivo specifica che in casi eccezionali è prevista non una rinegoziazione del corrispettivo, ma solo rimodulazioni specifiche: «Nell’ambito di tale orientamento è stato, in particolare, precisato che la revisione non concede al contraente la possibilità di rinegoziare il corrispettivo per compensare gli aumenti dei costi a suo carico, ma solo di conseguire rimodulazioni agganciate alla rilevazione degli aumenti medi dei prezzi dei beni e dei servizi, cosicché solo in via eccezionale è possibile il ricorso a differenti parametri, ma nella ricorrenza di evenienze impreviste e imprevedibili, insussistenti all’atto della sottoscrizione del contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento».
Nel caso specifico l’aumento dei costi lamentato da “Nestore” non legittimava l’istanza: «Ciò posto deve rilevarsi che, nel caso in esame, la richiesta di revisione prezzi è stata motivata in riferimento all’aumento del costo del personale e, tuttavia, tale voce non può qualificarsi in termini di eccezionalità, trattandosi di un costo prevedibile al momento della stipula del contratto».
Entrando ancor più nel dettaglio, il collegio aggiunge: «Soccorre a tale proposito l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui la revisione prezzi va calcolata utilizzando l’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. indice Foi) pubblicato dall’Istat, con esclusione quindi dell’incremento dei costi per l’impresa derivanti da altri fattori, quali l’aumento del costo del lavoro, in disparte la considerazione che la ricorrente non ha documentato di aver effettivamente subito l’incremento dei costi.
Si è osservato che l’indice Istat segna dunque la soglia massima della revisione, fatte salve eventuali circostanze eccezionali e specifiche – che devono essere provate dall’impresa – che possano determinare un discostamento dai criteri oggettivi seguiti in sede di revisione del prezzo lasciando spazio alla discrezionalità amministrativa».
Tra queste circostanze eccezionali «non rientra l’applicazione di un nuovo contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL) idoneo a determinare aumenti di costo dei dipendenti e degli oneri previdenziali, in quanto l’introduzione di un nuovo CCNL non costituisce una circostanza eccezionale».
In base a questa sola evidenza e tralasciando gli altri rilievi del Consorzio il ricorso è stato rigettato, con l’unico “contentino” della compensazione delle spese di giudizio.