Don Carlo Candido è tornato sull’isola nel momento più tragico per la intera comunità. Ecco il racconto della sua esperienza e delle emozioni provate al ritorno.
– Dove sei stato?
«Rispondo così, E’ stato il mio ritorno a Itaca, un po’ come il viaggio di Enea. Una storia, questa, che mi accompagna da un po’ di tempo ed è la metafora della vita, in fondo. L’Eneide esprime questo, l’uomo è sempre in cammino e sempre in viaggio, perché quel viaggio che l’uomo è chiamato a fare, è, prima di tutto, un viaggio alla ricerca di se stesso.
Un viaggio lungo, pieno di tentazioni, di pericoli, di difficoltà. Questa è stata l’esperienza interiore che ho vissuto. Un viaggio bello, esaltato ovviamente anche dai luoghi altrettanto belli che ho visitato e a cui sono molto legato, che è Assisi ovviamente e l’Umbria che io definisco una terra mistica, perché fra tutte le regioni d’Italia, e voglio soffermarmi solo all’Italia, è quella che ha donato più santi. In ogni città dove vai, trovi dei giganti. Oltre San Francesco e Santa Chiara penso a San Benedetto, Santa Scolastica, Santa Rita da Cascia, ma ne sono tanti. Amo do questa terra, il polmone di verde e perché c’è ancora una certa dimensione umana nei rapporti.
Perché, appunto sono stati tanti i luoghi che ho visitato che parlano di Santità. I santuari, come dice la parola stessa sono sì delle chiese, ma la stessa parola ci ricorda che sono luoghi dove c’è stata una presenza particolare del Signore, grazie a volte anche alla vita di un Santo. Luoghi che mi hanno aiutato ad ascoltare. E penso al santuario del Volto Santo di Manoppello alla Santa Casa di Loreto dovuto alla grazia di celebrare. Così come alla Porziuncola. Ho vissuto la mia Eneide, il mio viaggio e lì ritornerei ».
LA NECESSITA’ DI TORNARE
– Però diciamo che il ritorno questa volta non è stato come quello di Enea, so che in qualche modo hai velocizzato il tuo ritorno, legato a quanto è accaduto…
«Purtroppo rispetto a questi eventi, questo viaggio si è dovuto fermare perché forse sarebbe continuato, però c’era la necessità di tornare. C’è una frase che mi ha accompagnato anche in questo periodo, è quell’espressione del profeta dell’Antico Testamento, quando dice “per amore del mio popolo” e quindi, “per l’amore del mio popolo”, ecco, si ricalcola il percorso sul navigatore satellitare della propria vita, si deve avere il coraggio di farlo anche grazie alla sapienza del cuore e quindi…
Purtroppo nei giorni dell’alluvione ho avuto la febbre alta, ma appena il tempo riprendermi e subito sono corso ad Ischia. Penso che anche la febbre è stata forse un’occasione per prepararmi al ritorno sulla mia Itaca».
– Questa intervista si propone anche di dare una parola a quanti comunque ti conoscono come una persona alla quale porre domande e soprattutto avere risposte in un periodo in cui molti hanno vissuto in maniera traumatica, sia i fatti di agosto, sui quali non torneremo a commentare, sia i fatti di novembre. Quindi, come l’hai vissuto? Come è stato il tuo ritorno? Quali sono state le reazioni che hai avuto direttamente, le prime che ti hanno un po’ anche meravigliato? E quali sono state le risposte che hai provato a dare?
«Davanti alle prime immagini che arrivavano sia dai social di tanti che me le inviavano anche su Whatsapp e sia dai vari tg nazionali ho avuto un grande pianto. Perchè quando sei lontano dalla tua terra vederla così ferita e sapere che non puoi far niente, veramente, non ho vergogna di dirlo, io ho pianto, ho pianto ed ho pianto più volte ed ho pianto anche quando sono tornato. E anche durante i funerali, non ho vergogna di dirlo, perché umanamente avverti quanto sei impotente, quanto sei piccolo, conosciamo tutta la nostra fragilità, la nostra debolezza e la nostra impotenza. Questa è la prima cosa, è questo quello che io ho avuto modo di dire in più celebrazioni. Questa è la fatica della fede.
La fede non è avere delle risposte già preconfezionate, non avere dubbi, invece la fede è essere continuamente assaliti dal dubbio, dalle domande che ti martellano. Come diceva un grande teologo il cristiano è uno che deve avere in una mano il quotidiano e nell’altra la Bibbia. Lui cosa voleva dire? La storia continuamente ti interpella, ti provoca. Ecco il quotidiano, il giornale, che parla di cronaca; e la Parola di Dio, continuamente sollecitata, illumina la storia. E questa è la fatica del credente.
Il credente è proprio colui che continuamente deve fare questa sintesi tra la storia, tra la cronaca, tra le domande dei fratelli che ti sono al fianco e che ti pongono le domande.
L’ALA DELLA FEDE
«C’è un Premio Nobel per la letteratura, che alcuni anni fa raccontava dei lager. C’erano alcuni prigionieri che erano scappati e il capo del lager li condannò all’impiccagione. Tre persone, tra cui un bambino. E fece assistere i prigionieri del lager, uno dietro l’altro, all’impiccagione. Al centro c’era il bambino. E voleva che vedessero quell’orribile spettacolo .I due uomini morirono per il peso immediatamente, il bambino invece, continuava a dimenarsi nello spasmo prima di morire e il sole cominciava a tramontare. E lui sentì una voce da dietro che diceva “Dov’è Dio, dov’è Dio” e ad un certo punto sentì in cuore: “Dov’è Dio? E’ lì, appeso a quella forca”. Ecco, la fede ti dà la possibilità di vedere con questo sguardo. Lo dicevo l’altra sera nella messa dei “figli in Paradiso”, questa esperienza che vivo da anni con tutti questi genitori che hanno perso dei figli, raccontavo di un incontro che ho avuto con un bambino, fra virgolette. Un bambino morto a sei anni, Filippo. Filippo, l’ho incontrato dopo che sono Stato alla Basilica di Sant’Andrea alla Porziuncola per pregare. Sì, perché, ad un certo punto, quando arrivavano tutte queste scene da Ischia l’unica cosa che potevo fare in quel momento era pregare. Dopo, poi, sono andato nella libreria e mi ha colpito un libro con questo bambino. L’ho aperto per leggere e sono rimasto colpito dall’esperienza di questo bambino che amava mettere la maglia al rovescio. Ecco, diceva, non è importante l’etichetta o la marca. No, quello che appare, ma quello che c’è dentro. Non sapevo che fosse un bambino. Il suo sguardo sulla vita è uno sguardo di fede.
Come diceva “Il Piccolo Principe”: ciò che è essenziale e importante è invisibile agli occhi, lo si vede solo con il cuore. E questo bambino, ecco, aiuterà i genitori a fare questo, ad avere questo sguardo di fede sulla vita, perché davanti a tutta questa distruzione, come diceva quella canzone di Vasco Rossi che mi ha accompagnato nei miei anni di giovinezza e delle mie crisi giovanili, “un senso ce l’ha!”. Ecco, questa sera cerco un senso a questa vita. Può avere un senso? Noi cristiani siamo chiamati quotidianamente a trovare il senso di tutto questo. Ecco perché chiedo scusa se mi sono dilungato. Dice l’Apostolo Pietro “Date ragione a chiunque vi domanda della speranza che è in voi”. E quindi io credo che, come diceva, San Giovanni Paolo Secondo, il cristiano è uno che può volare con due ali, l’ala della fede e l’ala della ragione. E noi con queste due ali possiamo volare. Abbiamo quest’ala in più che è la fede, senza la quale credo che tutti cadremmo davvero in un grande buio.
In questi giorni dovunque sono stato e dovunque ho celebrato una cosa che tutti mi hanno detto, avvicinandomi o scrivendomi, è “grazie, perché ci hai dato speranza”, “ci hai portato un po’ di speranza” e questa cosa mi ha fatto pensare».
UNA VITA INTERROTTA
– Per rispetto al volere delle famiglie, almeno per quanto è dipeso da me, come Dispari, abbiamo provato a tenere i riflettori abbassati su tutti i funerali. Ho saputo però che tu hai partecipato a qualcuno…
«Si, assolutamente, è stata una scelta, ho voluto farlo. Sono stato presente al Buon Pastore e anche nei momenti precedenti, perché i parenti della famiglia Monti mi avevano chiesto di potersi confessare e devo dire che anche lì è stato un momento di grazia enorme. Per me la cosa più difficile era vedere quelle bare bianche. Sono sincero, umanamente è la cosa che più mi è costata fatica. Non ho vergogna a dirlo, durante la celebrazione tenevo puntati gli occhi sempre sull’altare, facevo fatica a guardare. Sono sincero, forse per una mia fragilità, ma facevo fatica a pensare che un bambino, una bambina, una ragazza così si fosse spento. Poi la fede, certamente, ricorda che noi siamo fatti per il cielo, per la vita eterna, però se il Signore ci ha dato questa vita ce l’ha data per viverla, e per viverla in pienezza. E’ una vita interrotta. Così mi sembra. Ecco, umanamente parlando, è ingiusto e ripeto che ho fatto una grande fatica. Mi aiutava guardare l’altare e non riuscivo per più di qualche secondo a guardare quelle piccole bare, perché mi coinvolgeva e non riuscivo a nasconderlo.
L’ho detto anche nella messa dei “figli in paradiso” l’altra sera: mi chiedo come può una mamma veramente sopravvivere dopo la morte di un figlio. Perché poi, fatta eccezione per la bulgara che aveva 57 anni, le vittime erano tutte al di sotto dei 40 e quattro al di sotto dei 15 anni. Credo che sia stata la tragedia più grande che ha colpito la nostra isola negli ultimi 100 anni».
LE COLPE DEGLI UOMINI
– Molti si sono detti: “ma dove Dio”?
«Oggi siamo in una cultura dove dobbiamo porci la domanda, l’antica domanda di Diogene. “E che fai? Sto cercando l’uomo. Dov’è l’uomo?”. Perché quando avvengono queste tragedie io credo che per buona parte, ed è dimostrato, è colpa dell’uomo, dell’incuria dell’uomo. questo evento ci ha colpito e ci sta dilaniando perché siamo una piccola comunità, ma non dimentichiamo che questi disastri per i cambiamenti climatici si stanno verificando in ogni parte del mondo. Anche in questo momento. E tante volte certi mezzi di comunicazione che sono ovviamente di parte, non fanno trapelare nulla. Ma lo sappiamo bene ed è bello che tutto questa voce stia salendo dai bassifondi del mondo, proprio dai più deboli, dai fragili, dai giovani, dai ragazzi. Ci stanno aiutando a sensibilizzarci su quella che Papa Francesco, nell’enciclica “Laudato sii” parla della casa comune, la cura della casa comune, perché quello che abbiamo vissuto, cioè le alluvioni, le frane, ci sono sempre state e non è una causa attuale. Quindi voler accentrare il problema sull’abusivismo è vero solo in parte, ma le franse ci sono state nel ‘500, nel ‘700, ce ne sono state almeno due o tre e gli archivi storici ce lo ricordano. Nell’Ottocento e all’inizio del secolo scorso e l’abbiamo vissuto alcuni anni fa, quando morì Anna De Felice. Le franse ci sono sempre state e ce ne sono un po’ dappertutto.
Ischia ultimamente sembra un colabrodo, ogni tanto c’è un crollo. Credo però ci sia una responsabilità politica e questo non adesso. Perché ora è avvenuta la tragedia, ma me ne devi dare atto, da più di cinquant’anni non è mai stato fatto un piano regolatore e non è stato mai permesso alle persone di poter costruire e farlo in modo adeguato. La dico qui, ma non vorrei aprire un altro polverone. Per 12 anni sono stato parroco di Ischia Ponte e devi pensare che c’è una zona tra la Mandra e l’Arso dove ci sono centinaia di case chiuse. E sono quasi tutte di non ischitani. Sono state costruite negli anni ’60 e ’70, interi villaggi che io non ho avuto mai la gioia di poter benedire, perché le ho trovate sempre chiuse e so che sono abitate solo un mesetto ad agosto o 15 giorni nel periodo estivo. Addirittura c’è un palazzo dove ci sono 10 appartamenti e ogni volta ne ho benedetto uno solo perché è uno solo di questi 10 appartamenti ad essere occupato.
Per dire che cosa? Che la politica in certi anni passati ha permesso tutto questo. E oggi che noi siamo passati in meno di quarant’anni da 20.000 abitanti a 70.000, credo che possiamo andare a vivere nelle gabbie dei conigli.
La questione è molto più seria perché è stata una politica che ha delle responsabilità. Non parlo dei politici di adesso, ma nemmeno degli ultimi 40 anni, che secondo me qualche responsabilità ce l’hanno, ma vedo che sto aprendo una polemica. Io condivido quello che dice il famosissimo geologo non tanto amato, Mario Tozzi. Lui dice una verità che condivido. Non ci sono disastri naturali, ci sono eventi naturali e fenomeni naturali. I disastri naturali avvengono perché l’uomo costruisce nel luogo sbagliato e nel modo sbagliato».
– E il 2023 di Carlo?
«Sono sincero, non voglio nascondermi dietro al dito, sto vivendo un’esperienza sinceramente molto bella, di leggerezza. Nel senso profondo, bello del termine, cioè di leggerezza interiore, non leggerezza nella risata. Proprio di vivere veramente l’attimo presente, che è un po’ la sapienza dei santi. I tempi del demonio sono il passato e il futuro. Il passato che ti riempie di scrupoli, di sensi di colpa, e il demonio è furbo. Il futuro ti riempie di angosce e ti dice che sarà difficile. Il presente, invece, è di Dio. L’eterno presente, quindi veramente un tempo bello perché, appunto, non ho umanamente parlando certezze. Vivo nella precarietà come il popolo di Israele. E il popolo di Israele, ogni volta che voleva delle sicurezze, si costruiva un idolo. Tante volte noi pensiamo che avere fede significhi avere certezze. Ma quelle sono idoli. Ecco perché tanta gente pensa di avere figli, ma come diceva quel vescovo che si trovò malato in ospedale: pensava che era figlio, invece era solo.
Pensiamo che la buona salute, il conto in banca e la casa ci diano sicurezza. Poi arriva, appunto, un disastro e ti accorgi che non era niente. Sto vivendo nella precarietà e mi sta dando una grande serenità, una grande pace perché in questa precarietà, alla fine, ti accorgi che tutto passa. Questo il mio desiderio, ma per amore del mio popolo ho dato la mia disponibilità».