Anche quest’anno (e ne parlo con relativo, incolpevole ritardo) il rapporto annuale del Censis sulla comunicazione in Italia ha fornito elementi di grande interesse, spunti di riflessione di notevole rilievo non solo per noi addetti ai lavori, ma anche per chiunque abbia a cuore l’apparente normalità che caratterizza la vita di ciascuno di noi.
Stavolta, però, non intenderò soffermarmi sui numeri e sui tecnicismi che ogni anno ne emergono puntuali ed impietosi, bensì su un passaggio molto ma molto interessante che mi ha colpito in modo particolare e che, a mio modestissimo giudizio, merita l’attenzione di Voi lettori nel 4WARD di questa settimana; un argomento talmente intrigante da meritare menzione nel titolo del rapporto: la fine dello star system.
Già lo scorso anno emerse un accostamento particolarmente tangibile nella nostra quotidianità, ovvero tra quelle “certezze” che da sempre hanno rappresentato simboli di stabilità nelle persone e nelle famiglie e le “novità” contemporanee che, in egual misura, hanno assunto nella società un ruolo altrettanto fondamentale: parliamo, da una parte, del “posto fisso”, della “laurea” che riesce ad elevare –almeno sulla carta- la tua collocazione culturale nel panorama lavorativo e professionale, della “casa di proprietà”; dall’altra, dello “smartphone” sempre più arto biomediatico e insostituibile compagnia diuturna, della “presenza sui social” oltremodo intensa e caratterizzante la nostra personalità, della “necessità di apparire” con la giusta intensità e conseguente soddisfazione personale (della serie, #selfieatuttiicosti) e, in tema di autoreferenzialità, la “tendenza a modellare e decorare il proprio corpo” per una sempre continua ricerca di –talvolta improbabili- autostima e gradimento altrui.
Qual è, quindi, il nesso con la fine dello star system di cui accennavo nell’introduzione? E’ semplice! Secondo gli esperti del Censis, le cui considerazioni hanno quasi sempre trovato la mia condivisione pressoché totale, questa spasmodica esaltazione dell’ego di ciascuno di noi attraverso la disintermediazione digitale dei nostri tempi ha fatto sì di vedere progressivamente demolite, giorno dopo giorno, le principali forme di rispecchio ed immedesimazione nei divi di turno. Esistono ancora, è fuor di dubbio, campi i cui v.i.p. restano quasi sempre modelli da imitare per i loro ammiratori (questo vale specialmente per il calcio e la musica); ma nella maggior parte dei casi, invece, non sono più gli stessi v.i.p. a dettare ai fans/followers le linee guida per sentirsi elevati socialmente, personalmente e (per chi ci riesce o ci crede sul serio) economicamente, ma è la loro possibilità di spettacolarizzare e diffondere agevolmente certi modelli ad adottare la visione del mondo di un semplice fan/follower, trasformandola in spettacolo, in modello.
C’è un elemento eclatante che supporta questa cosiddetta “crisi del divismo”. I dati forniti dal Censis rivelano che secondo il 49,5% degli Italiani, oggi chiunque ha l’opportunità di diventare famoso: le donne (50,7%) più degli uomini (48,3%), le persone istruite (53,4%) più di chi ha studiato meno (46,4%), con ben un terzo dei nostri connazionali che ritiene fondamentale, per il raggiungimento di tale aspirazione, la popolarità sui social network. Ma è altrettanto eclatante, amici Lettori, che solo un Italiano su dieci ritenga quello di una celebrità un vero e proprio modello da imitare e a cui ispirarsi. E ci conforta non poco il dato che attribuisce ad oltre tre quarti degli Italiani l’opinione secondo cui siano principalmente lo studio e la professionalità a condurre l’individuo al successo nella vita.
Il rischio della cultura autoreferenziale scaturente da internet (sono oltre trentadue milioni gli italiani ormai costantemente connessi alla rete), che non è solo costituito dal curarsi un malanno attraverso i consigli del Dottor Google o dall’improvvisare una lezione-lampo individuale di diritto o di economia dalla Prof.ssa Wikipedia, ma principalmente dal dover acquisire la pericolosa consapevolezza di poter ostentare quel tipo di bagaglio di conoscenza esclusivamente con un dispositivo funzionante alla mano, oggi a quanto pare fa il paio con il brillante risultato di aver accorciato sensibilmente la condizione irraggiungibile tra l’italiano medio e un divo. Ma se da una parte possono considerarsi attenuate le illusioni di molti, ridefinendone gli obiettivi concreti rispetto alla vacuità di un’emulazione senza particolari speranze di vita, dall’altra è bene tener presente di poterci trovare in tanti altri casi in cui questa perentoria disillusione può portare ad autentiche quanto pericolose crisi d’identità. E di questi tempi, con una gioventù tanto fragile quanto priva di certezze, ciò costituisce un rischio da tenere in debito conto, specialmente in una realtà come Ischia, laddove gli scopi di vita dei nostri adolescenti, già estremamente difficili da identificare, lo sono altrettanto da raggiungere e ancor più da consolidare. Perché se “uno vale un divo”, per noi che siamo “isola”, è senza dubbio indispensabile cominciare a tutelare seriamente il valore di ciascun “uno”.