sabato, Febbraio 15, 2025

RESTITUIRE O ACQUISIRE. Scontro per il depuratore a San Pietro, niente restituzione “d’ufficio” ai Di Meglio

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La “Limparo”, proprietaria della collina, stante il mancato completamento dell’opera nei termini e la diffida caduta nel vuoto, aveva presentato ricorso. Ora è stato accolto l’appello della Regione affiancata dal Comune d’Ischia, ma con la condanna a decidere rapidamente se restituire le aree o acquisirle. Confermata l'illegittimità dell'occupazione dal 30 giugno 2016 a oggi

La storia infinita del depuratore sulla collina di San Pietro a Ischia, in annosa attesa di completamento, ha come è noto acceso un contenzioso tra i “Patanari”, proprietari dell’intera area, da una parte e Regione Campania e Comune dall’altra. Ora definito “equamente” dal Consiglio di Stato, dopo una sentenza del Tar che nel 2020 imponeva la restituzione del bene alla società ricorrente “Limparo” dei Di Meglio e il pagamento della indennità di occupazione, “annullando” in un certo senso ogni possibilità di completare l’impianto. Adesso invece tutto dovrà essere riesaminato dalla stessa Regione alla luce anche del reale stato dei luoghi.

La sentenza è stata appellata dalla Regione, sostenuta con intervento ad adiuvandum dal Comune d’Ischia, chiamando in causa il Commissario Straordinario Unico per la depurazione e la “Limparo”, difesa dagli avvocati Isidoro Di Meglio e Marina Scotto.
Il Tar, nella sentenza impugnata, aveva riqualificato la domanda proposta dalla “Limparo” da «azione avverso il silenzio ad azione di esatto adempimento». Aveva accertato l’illegittimità dell’occupazione del fondo di proprietà della ricorrente dal 30 giugno 2016 fino all’attualità; aveva condannato la Regione «alla restituzione, previo ripristino dello status quo ante, dei cespiti occupati, liberi da persone o cose, entro il termine di tre mesi»; al pagamento dell’indennità di occupazione secondo i criteri indicati in motivazione.

TRASFORMAZIONE IRREVERSIBILE
L’appello ha evidenziato innanzitutto come la condanna a restituire le aree occupate entro il termine di tre mesi «abbia ingiustamente precluso all’Amministrazione l’ulteriore esercizio del potere, tra cui quello di disporre l’acquisizione delle aree, malgrado le aree stesse siano state irreversibilmente trasformate e asservite all’opera pubblica».

Il depuratore è completato al 60% e secondo quanto dichiarato dal sindaco d’Ischia i lavori sospesi dovrebbero essere ripresi. Circostanze di cui il Tar non aveva tenuto conto. E infatti la Regione ha proprio evidenziato che «il primo giudice avrebbe anche trascurato di considerare, in via istruttoria, che, sulla base della documentazione versata agli atti (relazione istruttoria del RUP, documentazione fotografica, stati di avanzamento lavori e relazione del Direttore lavori), nel corso degli anni sono stati eseguiti lavori per un importo pari a circa euro 10.795.146,57, come riportato nella relazione dello stato di consistenza al 1 ottobre 2015 del Direttore dei Lavori. In particolare, la documentazione fotografica comproverebbe che l’opera si trova in avanzato stato di realizzazione e che è assolutamente impossibile retrocedere al privato il compendio immobiliare, in quanto i luoghi hanno subito ormai una irreversibile trasformazione (secondo motivo)».

L’INTERESSE DEL COMUNE D’ISCHIA
La “Limparo” ha dedotto il difetto di legittimazione della Regione Campania, essendo a suo dire legittimato il Commissario Straordinario Unico per la depurazione, ed eccepito la inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum del Comune di Ischia. Nel merito ha sostenuto l’infondatezza dei rilievi della Regione circa la ritenuta violazione della norma sull’acquisizione, «oltre alla insussistenza di un perdurante interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, non essendosi la Regione mai attivata per instaurare tale procedimento».

Da parte sua il Comune ha rimarcato «che l’impianto di depurazione è destinato a servire anche il suo bacino territoriale, oltre quello del Comune di Barano, con la conseguenza che sussiste il suo pieno interesse giuridico, non di mero fatto, al completamento dell’opera pubblica». E a conferma dell’interesse pubblico al completamento dell’opera ha richiamato il d.P.C.M. dell’11 maggio 2020 che ha nominato il Commissario Straordinario Unico per l’attuazione dell’intervento. Ricordando ancora che «già da tempo sono stati concessi ingenti finanziamenti per la sua realizzazione: con delibera del CIPE 2002 per l’importo di euro 23.287.557,62; e con delibera 2012 per l’ulteriore importo di euro 7.280.245,04».
La trattazione era stata rinviata perché le parti avevano tentato un accordo che poi non si è materializzato.

IL POTERE DISCREZIONALE DELLA REGIONE
Si è così arrivati alla sentenza. Innanzitutto il collegio della Seconda Sezione ha ritenuto legittimata la Regione. Anche se l’accordo di asservimento delle aree era stato stipulato dal Commissario straordinario, si era registrato poi il trasferimento dell’intervento in capo all’Agenzia regionale Arcadis, a cui è poi succeduta la Regione. Così come è ammissibile l’intervento del Comune, di cui è palese l’interesse al completamento del depuratore. Il Consiglio di Stato quindi ha ritenuto fondati entrambi i motivi di appello.

Iniziando dalla rivendicazione da parte della Regione dell’esercizio «del proprio potere discrezionale, ivi compreso quello di valutare l’acquisizione delle aree asservite e irreversibilmente trasformate, in luogo della loro retrocessione al privato».
La sentenza motiva tale giudizio richiamando il ricorso della “Limparo”, volto principalmente «a far accertare e dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione in ordine alle numerose istanze e diffide, con cui la società medesima reiteratamente le domandava di prendere atto dell’inadempimento agli obblighi assunti con l’atto di asservimento del 10 ottobre 2010, in conseguenza della mancata realizzazione dell’opera pubblica nel termine del 31 dicembre 2012, poi prorogato con la stipula dell’atto integrativo del 2013 alla data definitiva del 30 giugno 2016; per poi ottenere, quindi, che l’Amministrazione si pronunci attraverso un provvedimento formale ed espresso, con il quale retroceda le aree in favore del privato; corrisponda la indennità di occupazione nell’importo di euro 58.286,73 fino al 31 dicembre 2009; disponga il pagamento della indennità maturata dal 1 gennaio 2010 e fino all’attualità, secondo i criteri fissati dalla legge». Chiedendo inoltre che il Tar si pronunciasse sulla fondatezza della pretesa, oltre a immediatamente nominare un Commissario ad acta.

Qui il collegio condivide la censura alla decisione del Tar: «Riqualificando officiosamente la domanda proposta, da azione avverso il silenzio ad azione di esatto adempimento, e condannando direttamente l’Amministrazione ad un facere specifico di contenuto esclusivamente restitutorio, il primo giudice ha esautorato ogni margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione», sia con riferimento al potere di retrocedere le aree, sia con riferimento al potere autonomo di acquisizione, anch’esso di natura discrezionale.

L’ERRORE DEL TAR
Per spiegare l’errore del Tar il collegio rileva che nel caso in esame, non si trattava di domanda restitutoria, «bensì di vera e propria azione avverso il silenzio e di retrocessione delle aree ai sensi del Testo unico espropri».
Provvedimenti che «implicano esercizio di potestà di natura pubblicistica discrezionale, e il primo giudice non avrebbe potuto direttamente assumerli, né disattenderli, sostituendosi – come invece ha fatto – alla riserva di amministrazione». Ricordando che «In nessun caso il giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati».

Con riferimento, in particolare, all’azione avverso il silenzio, rimarca la sentenza, «la richiesta a ché il giudice si pronunci sulla fondatezza della pretesa dedotta può essere avanzata solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’Amministrazione».
Nel caso del depuratore di San Pietro, invece, «vanno accertati dall’Autorità amministrativa i presupposti per dare luogo a restituzione, soprattutto quando, come nel caso che ci occupa, sia previsto che l’opera venga collocata nel sottosuolo e che il privato non effettui escavazioni al di sotto di una certa quota.
Spetta infatti all’Amministrazione valutare lo stato dell’immobile, la possibilità di restituire la parte che non sia stata utilizzata, ovvero, in alternativa, disporre la acquisizione “sanante” in ragione della irreversibile trasformazione».

LA STORIA
Per fare maggiore chiarezza i giudici ripercorrono la “storia” sulla base degli atti processuali: «E’ difatti emerso che la società ricorrente è divenuta proprietaria, nell’anno 2004, di un complesso immobiliare sito nel Comune Ischia, località San Pietro, già oggetto di una procedura espropriativa avviata nel 2001 con ordinanza commissariale del 26 gennaio 2001, cui ha fatto seguito il decreto di occupazione di urgenza n. 289/2004, finalizzata alla realizzazione di un impianto di depurazione a servizio delle fognature di Ischia e di Barano d’Ischia.

In data 30 gennaio 2010, è stato sottoscritto tra il Commissario di Governo delegato per la risoluzione dello stato di criticità in materia di bonifiche e tutela delle acque nella Regione Campania e la società ricorrente un atto transattivo, ossia l’atto di asservimento per cui è causa, che prevedeva la retrocessione alla società della parte superficiale delle aree occupate, con asservimento della sola area interrata.
L’atto stabiliva, in particolare, che l’intera proprietà sarebbe stata restituita alla società ricorrente, qualora l’opera non fosse stata realizzata entro il 31 dicembre 2012. Il corrispettivo per l’asservimento e per l’occupazione fino al 31 dicembre 2009 era stato determinato nell’importo complessivo di euro 58.286,73.
Le parti convenivano, altresì, che, con riferimento al successivo periodo di occupazione, l’indennità sarebbe stata corrisposta secondo i criteri di legge.

Successivamente, con verbale del 25 novembre 2013, l’Agenzia regionale campana difesa suolo – Arcadis (subentrata alla gestione commissariale) e la società ricorrente concordavano la proroga del termine di ultimazione delle opere fino al 30 giugno 2016».
Però, come è noto, l’impasse perdurava: «A detta della ricorrente, nemmeno entro il termine così prorogato l’opera pubblica sarebbe stata ultimata, versando anzi le aree in totale stato di abbandono.
La ricorrente si doleva, di conseguenza, dell’inadempimento da parte dell’Agenzia Arcadis in ordine a tutti gli obblighi derivanti dall’atto di asservimento del 30 gennaio 2010 e dal verbale di concordamento del 25 novembre 2013, in quanto la suddetta Agenzia non avrebbe né corrisposto l’indennità di occupazione, né eseguito l’opera pubblica entro il termine stabilito.

È per questa ragione che la società si determinava ad inoltrare all’Amministrazione ripetuti inviti (da ultimo, l’atto di diffida e costituzione in mora del 27 luglio 2016) per sciogliersi dai prefati accordi e per ottenere la retrocessione totale o perlomeno parziale delle aree, oltre a vedersi corrispondere il pagamento della indennità di occupazione.
Tali inviti, tuttavia, rimanevano senza risposta, ed è stato così che la società ha proposto il ricorso avverso il silenzio».

IL CALCOLO DELL’INDENNITA’
La Regione ha anche posto l’accento sui soldi già spesi per realizzare l’opera per dimostrare che, «anche al fine di comprovare l’avvenuta irreversibile trasformazione delle aree, debba tenere conto della spesa pubblica già effettuata per collocare nel sottosuolo delle aree del privato l’impianto di depurazione».
Alla luce dei fatti dunque si ritiene che «la decisione del Tar di riqualificare ex officio la domanda proposta, da azione avverso il silenzio ad azione di esatto adempimento, sia errata e abbia ingiustamente influenzato l’esito della decisione». Il ricorso doveva sì essere accolto, ma sulla base di una motivazione diversa.
Di qui l’accoglimento dell’appello e la riforma di quella sentenza, confermata solo nella parte in cui ha accertato l’illegittimità dell’occupazione del fondo di proprietà della “Limparo” dal 30 giugno 2016 e fino all’attualità.

La riforma interessa invece la parte in cui ha condannato la Regione «alla restituzione, previo ripristino dello status quo ante, dei cespiti occupati, liberi da persone o cose, entro il termine di tre mesi». Sostituendola con la condanna a pronunciarsi sulle istanze della società «mediante un provvedimento formale ed espresso, assumendo immediatamente la decisione se retrocedere le aree al privato, sussistendone i presupposti, ovvero, in alternativa, disporne la immediata acquisizione».
Anche il calcolo dell’indennità di occupazione dal 1 gennaio 2010 e fino all’attualità dovrà avvenire secondo criteri diversi da quelli indicati dal Tar, ma dettati dalla legge.
In caso di inottemperanza entro 90 giorni, viene nominato commissario ad acta il Commissario Straordinario Unico per l’attuazione dell’intervento in Campania.
Ora la Regione dovrà accelerare nell’assumere una decisione. Il contenzioso ha avuto una conclusione inequivocabile. I tempi di effettivo completamento del depuratore sono decisamente molto più nebulosi.

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