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Sinner, il patteggiatore | #4WD

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Daily 4ward di Davide Conte del 19 febbraio 2025



Il recente caso di Jannik Sinner e la WADA ha acceso un dibattito che va oltre il semplice ambito sportivo, toccando questioni di convenienza, immagine e compromessi resisi necessari anche in uno sport tradizionalmente meno esposto alle dinamiche del business globale come il tennis.
In primo luogo, la scelta di patteggiare sembra essere stata dettata da una reciproca convenienza. Da un lato, la WADA mantiene saldo il principio della lotta al doping, dimostrando di vigilare senza troppi accanimenti e lasciando un margine di flessibilità per situazioni che, pur rientrando nei parametri delle infrazioni, non richiedono pene eclatanti. Dall’altro, Sinner e il suo team evitano un contenzioso che avrebbe potuto intaccare non solo la sua immagine, ma anche la sua concentrazione in vista dei prossimi slam. Il tennis, infatti, è uno sport che richiede continuità agonistica e mentale altissima e una disputa prolungata avrebbe potuto rappresentare una distrazione deleteria e un’eccessiva sovraesposizione mediatica.
Ciò che emerge da questa vicenda è la conferma che, sebbene in misura minore rispetto a discipline più popolari e mediaticamente esposte come il calcio, anche il tennis non è del tutto immune dalle logiche commerciali e di immagine. I grandi tornei, gli sponsor e l’intero ecosistema economico che ruota attorno ai top player hanno interesse a evitare situazioni che possano minare la credibilità e l’attrattività del circuito. È lecito dunque chiedersi fino a che punto certe decisioni siano prese in nome di un’etica sportiva assoluta e quanto, invece, siano influenzate da equilibri strategici. Una condizione, questa, facilmente rivendicabile a mo’ di privilegio da parte di tanti colleghi del numero uno altoatesino.
Non è una novità che il mondo dello sport, anche nelle sue declinazioni più nobili e tecnicamente pure, debba fare i conti con realtà che esulano dalla semplice condizione tecnico-atletico-agonistica. Le federazioni, le autorità antidoping e gli atleti stessi sono parte di un sistema che non può prescindere da esigenze di governance e tutela dell’immagine. Questo non significa necessariamente che si debba vedere ogni decisione con sospetto, ma è indubbio che anche il tennis, nonostante la sua tradizione di sport relativamente “pulito” rispetto ad altri, si trovi sempre più spesso a dover utilizzare il criterio della mediazione per risolvere simili querelle.
Il patteggiamento di Sinner a tre mesi di squalifica, dunque, non è solo un episodio isolato, ma il segnale di una dinamica più ampia in cui anche il tennis deve affrontare talvolta regole non scritte che dettano i tempi dello sport moderno. Per i puristi, potrebbe essere una nota stonata in un contesto che vorrebbero più trasparente e meritocratico; per i pragmatici, è semplicemente la dimostrazione che, a certi livelli, nessuno è davvero immune da logiche di opportunità. La verità, come spesso accade, probabilmente sta nel mezzo.

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